Kissinger: su deficit e tasse il Cavaliere si gioca tutto

Kissinger: su deficit e tasse il Cavaliere si gioca tutto Kissinger: su deficit e tasse il Cavaliere si gioca tutto E L'ITALIA M BERLUSCONI SNEW YORK TIA attento - brontola la leggendaria voce baritonale di Henry Kissinger - non si aspetti che io insegni a Berlusconi quel che deve fare, se deve vendere la Fininvest o che ministri deve scegliere. E' ora di smetterla con le lezioni all'Italia date da stranieri che non hanno comunque mai capito niente della politica italiana». Lei allude per caso...? «Io alludo a nessuno e alludo a tutti. Gli affari degli italiani sono gli affari degli italiani». Tra le pareti sottili degli uffici della «Kissinger Associates», società di consulenza specializzata in contatti ad altissimo livello e relazioni con l'intera galassia, il ruggito di «Dottor K», risuona come il grido del re della foresta. E una foresta amazzonica, questo ufficio in Park Avenue sembra davvero, tra le liane delle squadre tv sempre in attesa di intervista, i sibili e cinguettìi costanti dei fax, i balzi felini di segretarie e collaboratori sempre dì corsa per stare al passo con il più formidabile cervello della diplomazia americana nell'ultimo mezzo secolo. Un personaggio capace di parlare al mattino con i cinesi, a colazione con i coreani, per il tè con i tedeschi, all'aperitivo coi russi e nei ritagli di tempo buttar giù il manoscritto del suo ultimo libro, «Diplomacy», una storia della diplomazia internazionale dalla Pace di Westfalia a Gorbaciov, di appena 980 pagine. Da qualche minuto - il tempo di Henry Kissinger si misura a minuti - quel cervello sta riflettendo con noi su Berlusconi, Fini, Occhetto, forse la riflessione più importante fra quelle che ho raccolto finora in questa inchiesta dentro l'America che conta davanti al «Caso Italia». Importante non solo per lo spessore, l'esperienza, la testa, ma perché l'influenza di «Doctor K» sugli umori della comunità politica internazionale è immensa. Ma Henry Kissinger, ex Segretario di Stato, ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale, premio Nobel per la Pace fra gli altri titoli e onori, è irritato. «Se Berlusconi chiedesse il mio consiglio, gli direi di non preoccuparsi affatto delle opinioni della comunità internazionale, proprio per niente». E perchè mai? Forse che non ha più importanza quello che l'America, l'Europa, la Francia, il mondo pensano dell'Italia? «Al contrario. Ma se Berlusconi farà le cose che sono giuste e necessarie per rimettere in sesto l'Italia, le garantisco che la comunità internazionale lo applaudirà. Se non le farà, nessuna sceneggiata politica, nessuna dichiarazione pubblica, nessun gesto solenne potrà aiutarlo». Quali sono allora le cose giuste e necessarie che il nuovo governo deve fare subito? «I governi nuovi che prendono il potere in momenti di crisi devono attaccare subito i problemi di fondo, fin dall'inizio. Se aspettano, restano poi inevitabilmente intrappolati nella gestione dei sintomi dei problemi e poi è impossibile attaccare la radice». Ma così il governo si gioca subito il capitale di popolarità che lo ha portato al potere. «Certo, ma la popolarità che fa vincere le elezioni non è quella che serve a governare il Paese. La popolarità conquistata con le promesse deve essere rimpiazzata in fretta dalla popolarità conquistata con i risultati. E Berlusconi deve avere poche idee, ma chiare, fare poche cose, ma comprensibili, precise». Attaccare subito, dunque. Attaccare che cosa? «Il deficit dello Stato, e il sistema fiscale italiano. Si devono insieme ridurre le tasse e farle pagare, esattamente il contrario di quanto è stato fatto sinora. L'obiettivo è uno solo: sciogliere le briglie dello statalismo, della pessima amministrazione pubblica, del governo, sulla straordinaria creatività e sulla intraprendenza degli italiani. Guardate, neppure voi italiani vi rendete conto di quello che avete saputo fare tra il 1945 e il 1990. Ero in Italia nel '46 e se qualcuno avesse osato immaginare quel che sarebbe divenuta l'Italia 40 anni dopo, sarebbe stato preso per un pazzo». Voci di segretarie affannate e di collaboratori agitati entrano ed escono dal suo studio per chiedere la corretta ortografia di un ex presidente del Perù, con la 'j' o con la "y' s'informano, o la formula di cortesia esatta per rivolgersi a un dignitario cinese. «Doctor, c'è Pechino in linea, la chiama Washington sulla linea 2, che dico all'ex presidente coreano, che è occupato?». A 71 anni d'età - è del 1923 - non c'è in quest'uomo massiccio, sorprendentemente dotato di spirito, la minima intenzione di rallentare, di ritirarsi in una villa di campagna a scrivere saggi ancora più corposi. Ma la sua allusione al 1946, all'immediato dopoguerra, ci spinge inesorabilmente verso la que¬ stione più spinosa del «caso italiano»: la presenza dei post-fascisti nella maggioranza e nel governo. E qui davvero nessuno è più qualificato a rispondere di Kissinger, il ragazzo tedesco, l'ebreo, costretto nel 1938 a fuggire con la famiglia da una Germania già sotto gli stivali di Hitler. «Non credo neppure di doverle dire che io sono violentemente, visceralmente anti-fascista, ma lo scriva lo stesso nel suo pezzo per evitare equivoci...». Fatto. Ora dica... «Dunque, prima di tutto io sono rimasto straordinariamente impressionato, direi orgoglioso se fossi italiano, per il modo come avete saputo districarvi dal labirinto elettorale nel quale il collasso del vecchio sistema vi aveva cacciati. Il vostro è stato un voto di eccezionale buon senso collettivo, di fronte a una legge elettorale nuova astrusa, difficilissima da capire. Fra le due soluzioni che vi erano stato offerte, una dominata dal totalitarismo di sinistra e una opposta dove era rappresentato anche il totalitarismo di destra, avete scelto la più mo¬ derata, la più sensata e quella che conduce con più probabilità a una soluzione democratica della crisi italiana. Ci potevano essere scelte migliori? Certamente. Ma non è colpa degli elettori italiani se le scelte erano queste». Lei parla di una futura «soluzione democratica» delle crisi. E quale sarebbe? «Una vera alternativa e alternanza fra un partito di sinistra liberale e democratico, fatto di gente nuova, di giovani, e un partito di centro-destra moderato. Questa sarebbe la soluzione ideale per spezzare il vizio del potere visto come occupazione permanente». In parole chiare, dottor Kissinger, lei degli ex comunisti, del pds, di Occhetto, ancora non si fida? «Look, guardi - Kissinger comincia spesso con questo "guardi" un po' da professore paziente con un allievo particolarmente somaro - look, io conosco personalmente e apprezzo molti comunisti italiani. Ma il punto non è la simpatia personale. Il punto è che i leaders comunisti, o del partito democratico della sinistra come si chiama ora, sono per lo più gli stessi che in passato avevano appoggiato lo stalinismo, poi il kruscevismo, poi il breznevismo. Un partito che ha passato la sua vita tutta all'interno di un'ideologia che era esplicitamente totalitaria non può essere divenuto autenticamente democratico per convizione». Eppure le affermazioni, i comportamenti, le scelte fatte dal pds sembrano da tempo chiaramente democratici. «Democratici per tattica. Look, stia attento: non voglio dire che il pds, o l'ex partito comunista, il nome non ha importanza, non diventerà mai una forza autenticamente democratica. E' semplicemente troppo presto. Occorrerà qualche anno, e una generazione di leaders nuovi, che erano troppo giovani quando il partito compiva le sue contorsioni e acrobazie nei rapporti con i sovietici, per rendere pienamente credibile il pds come partito democratico». Ma dottor Kissinger, la stessa cosa, gli stessi sospetti esatti, si possono formulare nei confronti dei fascisti, o dei post-fascisti come si fanno chiamare ora. Perché mai dovremmo credere a Fini e non a Occhetto? «Assolutamente, è lo stesso problema. Ma con due enormi differenze. Primo: i neo fascisti hanno sempre rappresentato un partito di nostalgici che avevano il proprio punto di riferimento in un regime completamente screditato dalla storia, i comunisti erano invece legati a una pericolosa superpotenza esistente. Seconda differenza: se avesse vinto oggi la sinistra in Italia, gli ex comunisti sarebbero stati in una posizione dominante, sarebbero stati loro, di fatto, la coalizione vincente. Nel gruppo Berlusconi, i neo fascisti rappresentano una forza importante, certo, ma minoritaria. Ed è sempre molto più facile controllare e convertire una minoranza che una maggioranza». Nel suo ultimo libro, «Diplomacy», lei spiega la vittoria di Reagan, nel 1980, come il trionfo del «non intellettuale» in politica, sospinto dalla tv. C'è un po' di Reagan, e molta tv, nel successo elettorale di Berlusconi? «Oh sì, ci sono molte similarità. La televisione sta trasformando la coscienza collettiva come fece la stampa nel Rinascimento. Produce impressioni superficiali, emozioni e quindi favorisce la demagogia e non lo dico per alludere a Berlusconi. La tv rende la vita e le scelte politiche a respiro corto, perché corto è il respiro della tv». E' lecito allora che un politico possegga, oltre a interessi commerciali, anche una grande fetta delle tv nazionali? «In America, una situazione simile sarebbe inaccettabile. In Italia, è rigorosamente affar vostro, l'ho detto». Ma neppure una soluzione all'americana, scusi se insisto, un «blind trust», nella quale si affida la gestione dei propri interessi «alla cieca» a una terza persona per la durata del mandato di governo sarebbe soddisfacente? «Look, chi prenderebbe sul serio, in Italia, un blind trust?». Non molti. «Appunto». Siamo dunque arrivati alla questione della corruzione, quella che ha fatto crollare il vecchio sistema dei partiti in Italia... «Non è vero...». Come, non è vero, dottor Kissinger, non c'era corruzione nella politica italiana? «Sì, ma non è stata la corruzione a far saltare i vecchi partiti. Quella è stata il sintomo, il pretesto. Look, la sostanza della crisi era nella ormai completa autonomia della politica rispetto alla gente, al senso di estraneità bizantina, machiavellica, che la politica di professione aveva creato fra i cittadini. E poi è arrivata la noia. Oggi la gente si annoia molto rapidamente dei suoi leaders e la noia, in politica, uccide». Anche nel giornalismo, dottor Kissinger, e dunque fermiamoci qui, prima di annoiare troppo chi ancora ci leggesse. Ma lei che ha portato il Campionato del Mondo in America con la sua lobby prò calcio, per chi fa il tifo? «Per Brasile o Germania, mi sembrano le migliori. L'Italia mi fa paura perché sta giocando maluccio nella preparazione, e quando voi giocate male alla vigilia del mondiali, poi finite per vincerli». C'è Pechino in linea, dottor Kissinger, irrompe una segretaria. «Look....». Ho capito, ho capito, tempo di andare. «No, guardi, look, sono molto, ma proprio molto ottimista per il futuro dell'Italia». L'Italia del Mondiale? «No, l'Italia della politica e dell'economia, quella che si salverà sempre grazie a voi, al popolo italiano». Vittorio Zucconi 3 - continua «La popolarità conquistata con le promesse deve essere seguita subito dai risultati» «Il vostro è stato un voto di buon senso Nel Polo la destra è minoritaria, a sinistra dominano ancora gli ex comunisti» «Il nuovo governo non si preoccupi della comunità internazionale Se rimette in sesto il Paese il mondo lo applaudirà» e che, in America, non potrebbe mai accadere... «Non potrebbe accadere? Non saprei. Non ci siamo mai incontrati con Berlusconi e quindi non ne ho una percezione diretta. Ma io penso che viviamo in un'era in cui i media sono dominanti e influenzano il nostro modo di vedere il mondo e le cose. Non mi sorprende che n alcuni Paesi una persona che si è costruita una fortuna e un impero con i media riesca ad arrivare ai vertici del sistema politico. La questione è un'altra: una volta ottenuto il potere, co¬ giornali, neofascista. Lei crede che l'Italia si sposti in quella direzione? «Penso sia assolutamente prematuro questo giudizio estremo, per molte ragioni. Diversi In Argentina, il presidente Menem ha vinto come erede del partito di Juan Peron, ma ha privatizzato l'economia, facendola crescere e stabilizzando l'inflazione. Quando nell'87 visitai Firenze, Bologna, Siena ed altre città che erano in mano al partito comunista, tutti erano pro-Nato, anti-sovietici, pro-Stati Uniti e pro-libero mercato. La gente va giudicata per quello che fa, non per le etichette». Signor presidente, qual è la sua America, e pensa di essere sulla strada giusta per realizzarla? «Sì. La direzione è quella giusta. Voglio ricostruire l'America dal di dentro, grazie a un rinnovato senso della comunità. Un'America mi- «La popolarità conquistata con le promesse deve essere seguita subito dai risultati» Kissinger: sil Cavaliere Sopra: l'ex segretario di Stato Usa premio Nobel Henry Kissinger visto da Levine. In alto a sinistra Silvio Berlusconi, a destra Ronald Reagan. A lato, Achille Occhetto