«Sono tornato per ricostruire la Russia»

Solzenicyn bacia la terra della patria: non è più tempo di scrivere, inizia un duro lavoro Solzenicyn bacia la terra della patria: non è più tempo di scrivere, inizia un duro lavoro «Sono tornato per ricostruire la Russia» Duemila in piazza per accoglierlo con «O sole mio» e bandiere rosse E' tornato senza illusioni. Non ne ha mai avute. I profeti non hanno illusioni, credono. E Aleksandr Solzenicyn ha una fede ferrea, implacabile, nella Russia e nel suo popolo. Il primo passo sulla sua terra ritrovata è stato fermo e possente come le sue opere, sicuro del suo intuito. Ha capito, sapeva, di tornare in un Paese lacerato e sofferente, ancora schiacciato dai suoi secolari dilemmi, al centro di un crocicchio doloroso e lancinante. Non è venuto, dunque, per esaltare cambiamenti di cui diffida, né per cantare peana alla caduta di quel comunismo che egli ha pur contribuito ad abbattere. Egli sa che la Russia deve ancora ritrovarsi. E per ritrovarsi deve capire cosa è accaduto. E per capire deve redimersi, deve trovare una risposta al quesito attorno al quale egli stesso si arrovella da quel 1945 in cui, nel mezzo di una battaglia, il capitano di artiglieria Aleksandr Solzenicyn, pluridecorato per l'eroismo dimostrato su tre fronti di guerra, venne arrestato per aver criticato Stalin in una lettera privata ad un amico. E il quesito è questo: «Come ha potuto una tale tribù di lupi nascere all'interno del nostro popolo?». Per questo, conscio del valore dei segni, ha usato la sua prima sosta - tecnica per il suo aereo, simbolica per lui - a Magadan per lanciare il primo appello a «non dimenticare» i milioni di vittime innocenti, poiché «è facile dimenticare, sia per chi fu toccato da quegli orrori, sia per chi quegli orrori commise». L'aveva scritta prima, quella breve dichiarazione, per non dire né una parola di più, né una di meno. Doveva essere il primo dei due messaggi da consegnare alla storia di questo suo ritorco e non c'è da dubitarne - alla storia tout court. Ai piedi della scaletta dell'aereo lo aspettava Serghei Petrishev, il rappresentante del Presidente nella regione di Magadan, quella che comprende Kolyma, che fu il più colossale universo concentrazionario dell'Arcipelago Gulag. Ma i convenevoli sono stati brevi e sono venuti dopo il gesto solenne ed atteso: inginocchiarsi a sfiorare la terra con le dita, portarsele alle labbra. Poi di nuovo il volo verso Khabarovsk, con 36 ore di viaggio già sulle spalle ancora erette di settantacinquenne che ha superato prove ben più dure: da Cavendish, Vermont, a Boston, ad Anchorage, all'estremo Oriente russo, attraversando la linea del cambio di giorno, per presentarsi alla folla esagitata di giornalisti, teleoperatori, fotografi che ha minacciato di travolgerlo appena lasciato il corrimano della scaletta a Vladivostok. In un parapiglia indescrivibile, che la trentina di «druzhinnuki», agenti in borghese finti volontari, non è riuscita a dominare, si sono rapidamente succeduti i pochi convenevoli. L'abbraccio di Jurij Perokofiev e di Boris Mozhaev, gli amici che lo attendevano, il bacio del pane offertogli da due impaurite ragazze in costume locale. «Non intendo rispondere alle domande» dice sorridendo. Non è più l'icona ieratica e severa che eravamo abituati a vedere. Adesso, nella sua giacchetta beige, mezzo americana e mezzo russa, i capelli e la barba arruffati dal vento, gli sorridono gli occhi. «E' previsto un incontro in piazza - Cari concittadini, durante tutti gli anni del mio esilio ho seguilo con intensa passione gli avvenimenti del nostro Paese. Non ho mai dubitato che il comunismo sarebbe inevitabilmente crollalo; ma ho sempre temuto che il ■nostro dislacco da esso, il prezzo di quella rottura, sarebbe stato terribilmente doloroso. E ora io provo un dolore ancora piùgrandeper il modo in cui la Russia ha vissuto questi due anni, che hanno rappresentato una dura prova per la vita e lo spirito del popolo, lo so che le vostre condizioni attuali sono estremamente e eccezionalmente dure, cosparse di una miriade di guai; e che non c'è un futuro chiaro per voi e per i vostri figli. So che sto tornando in una Russia torturata, perplessa, alterata fino ad essere irriconoscibile, convulsamente alla ricerca di se slessa, della propria identità. Dovunque io vada spero di incontrare e ascoltare la gente semplice. Sono pronto a confermare o a cambiare i miei giudizi, a guardare dall'interno e a dividere con voi le vostre preoccupazioni e paure, e a cercare insieme la via più sicura per uscire bene dai nostri 75 anni di incubo. Il mio cuore attende il giorno in cui il nostro popolo e II nostro Paese così sofferenti possanofinalmente vedere davanti a sé un raggio di luce. Mi chino a voi con ammirazione e lispetto. IL PRIMO DISCORSO Al COMPATRIOTI Aleksandr Solzenicyn 27 MAGGI01994, VLADIVOSTOK, RUSSIA Stephan l'altro figlio di Aleksandr Solzenicyn aggiunge - ho una dichiarazione da fare, la farò laggiù. Ma se volete riprendermi fate pure, calmatevi, mi girerò da tutti i lati, così farò contenti tutti». Dietro alle vetrate dell'aeroporto i passeggeri russi guardano, un po' stupiti e sconcertati, curiosi, quel bailamme di scalmanati occidentali, le raffiche dei «click» e dei «flash». Perché Solzenicyn è davvero personaggio mondiale, malgrado il suo messaggio sia dei più astrusi e, a ben vedere, ambigui per il resto del mondo. Davide che combatté con la penna contro il Golia comunista, che fu esaltato dall'Occidente come il campione della democrazia, che conquistò il Premio Nobel nel 1970 per la sua monumentale denuncia dell'immane mostro totalitario con «Il primo cerchio», «Divisione Cancro», ((Arcipelago gulag», espulso vent'anni fa dal suo Paese perché i potenti di allora non potevano né esorcizzarlo, né annientarlo, Solzenicyn non è mai diventato un esegeta dell'altra parte del mondo, che pure lo accoglieva a braccia aperte. Dall'eremo che si scelse nel Vermont, in America, distillò presto una critica radicale della civiltà in cui era costretto a vivere, in cui sono cresciuti i suoi figli, ma di cui non volle fare parte, al punto che non parla una parola d'inglese. «Noi russi disponiamo di un'intensità spirituale che non cambierei con l'attuale stato di esaurimento spirituale dell'Occidente». PELLEGRINO NEL G Se mi metto a sedere e a occhi chiusi ripenso a tutte le celle in cui sono stato, trovo difficile contarle. In ciascuna era gente, gente e ancora gente gente semplice viene educata all'indifferenza verso l'ingiustizia e impietosa verso le sofferenze altrui. Dove gli scrittori, gli intellettuali, per vivere devono ora piegarsi al ruolo di giullari, di intrattenitori, dopo essere stati gli adulatori ossequienti del Principe. Solzenicyn non lo fu mai e troverà difficile, se non impossibile, provare solidarietà per loro. Lo dice alla Tass: «Ho assolto al mio compito letterario. Non avrò più tempo per scrivere: è venuto il momento di cominciare un duro lavoro per far rinascere la Russia». E via di corsa verso la città, verso l'incontro con la folla che lo attende - ma chissà se qualcuno gliel'ha detto - nella «piazza dei combattenti per il potere dei Soviet». Ironia del destino, il suo secondo messaggio, calibrato al millimetro, virgola per virgola, avverrà ai piedi del monumento bronzeo agli artefici della sua tremenda odissea personale, ai costruttori metaforici e inconsapevoli delle prigioni in cui trascorse gli anni dal '45 al '52; dai lager come quello di Kok-Terek, nel Kazakhstan settentrionale, in cui visse lavorò dal 1953 al '56. E' già tardi. Le soste di Magadan e Khabarovsk, il tumulto dell'aeroporto di Vladivostok hanno fatto accumulare quasi quattro ore di ritardo. In piazza gli altoparlanti non hanno inni da proporre e diffondono «Besame Mucho» e «'0 sole mio», ballabili rit- ULAG, DOPO QUARANTANNI 'Ah, la bella parola russa 1 ostrog, carcere forte, ben costruita. Sembra di sentirvi la robustezza di quelle mura dalle quali non si fugge 'I 'Quando vi arrestano di I giorno vi è un attimo in cui siete portati via attraverso la folla dei vostri simili. Allora potreste e dovreste gridare Primo contatto con la terra russa all'aeroporto di Magadan Solzenicyn riceve pane e fiori mati. Resistono circa duemila persone che l'hanno atteso per applaudirlo, magari solo per vederlo. C'è anche una bandiera rossa piccola piccola, e un cartello icastico: «Solzenicyn, liberaci dagli elzinoidi!» e uno striscione bianco che - chissà perché - inneggia a Nosdratenko, il presidente della regione, «L'artefice della rinascita di Vladivostok». Ma l'atmosfera è calda, benevola, pronta ad accogliere il secondo messaggio, che farà il giro della Russia. Diciotto righe che vogliono dimostrare che Solzenicyn non ha perduto il contatto con il suo popolo, che sa come stanno le cose, che è venuto per dire e per dirsi la verità: «So che sto ritornando in una Russia torturata, sconvolta, resa irriconoscibile dai cambiamenti, alla ricerca convulsa di se stessa». Pochi minuti, un applauso. Dalla folla partono grida, domande. Ma Solzenicyn ha già detto tutto ciò che voleva dire. Sorride, appare contento dell'accoglienza, alza le braccia in segno di saluto. Aggiunge soltanto, rispondendo a un grido, che «Non è vero che ai russi manca l'iniziativa, ma dobbiamo evitare l'apatia, l'indifferenza. Tutto dipende da noi». Poi risale in macchina e il corteo si dirige verso l'hotel Vladivostok. Jurij Prokofiev, il regista suo amico, aveva detto eufemisticamente: «Non certo il migliore della città». Gli avevano proposto altre soluzioni, alberghi di lusso per stranieri, la residenza statale per gli ospiti illustri. Ma le ha rifiutate tutte: nella dacia governativa abbondano le zanzare, gli alberghi di lusso non intende frequentarli. Così si sono rassegnati a portarlo al Vladivostok, dopo averlo ripulito degli inquilini (e inquiline) men che rispettabili. Non ha deflettuto neppure quando gli hanno comunicato, con un po' di vergogna, che al Vladivostok non c'è l'acqua calda, come del resto, in queste settimane, non c'è in tutta la città. Da Mosca, intanto, non è venuto nessuno a riceverlo. Lui non lo ha richiesto {«Viaggio assolutamente privato», ha ripetuto in continuazione Prokofiev), ma non occorreva che lo richiedesse. Se torna un padre della patria i maggiorenti non possono ignorarlo. A meno che non vogliano. A meno che non intendano lasciare che parli, che si pronunci, prima di decidere se canonizzarlo o meno. Se non altro per non provare imbarazzo, oppure irritazione. Questo Paese è ancora - sotto questo profilo - quello che Solzenicyn lasciò 20 anni fa, caricato a forza su un Tupolev dell'Aeroflot diretto in Germania: o si è amici di chi governa, o si è nemici. Spazio per le vie di mezzo non c'è. E i due messaggi che il Vate ha lanciato oggi lo lasciano libero di stare con se stesso e con la Russia che ha sempre sognato. Una Russia che non è una passerella di tiranni, da Ivan a Pietro, a Stalin. Né è popolata di Untermenschen, sottouomini, homines sovietici che hanno meritato la sorte che hanno avuto e che hanno. Cioè un personaggio scomodo. La piazza dei combattenti per il potere dei Soviet si è vuotata in fretta, le ragazze in minigonna si allontanano ridendo, accennando qualche passo di danza al ritmo di «Besame mucho», scende la sera portando un leggero vento di mare carico d'acqua, di sale e di profumo di pesce. Giuliette Chiesa