Cosa nostra e il «pericolo rosso» di Enrico Deaglio
Cosa nostra e il «pericolo rosso» Cosa nostra e il «pericolo rosso» L'«ideologia» corleonese, da Liggio a Totò 50 ANNI DI VIOLENZA A pensato che fosse il momento giusto, Totò Riina. Sa di essere forte, o perlomeno vuole giocare la carta della sua forza. Senza mediazioni, direttamente verso i suoi nemici: il giudice Caselli, l'ex presidente dell'antimafia Violante, il deputato-scrittore Pino Arlacchi. Sa che cosa vuole: smantellare la legge sui pentiti, uscire, in qualche modo dal carcere, o perlomeno - e subito - dall'isolamento. I suoi nemici? «I comunisti». Non lo avrebbe detto così chiaramente un anno fa, nemmeno sei mesi fa. Ma evidentemente anche Totò Riina è informato di come va la politica in Italia, ed entra deciso nel dibattito, richiedendo la sua parte. Ha probabilmente anticipato i tempi: gli analisti della mafia prevedevano questo intervento entro sei mesi. In maniera agghiacciante, Salvatore Riina, contadino di Corleone, ha «tagliato la testa al toro» delle innumerevoli discussioni sulla natura della mafia siciliana: la mafia è anticomunista. E, a rileggere la vicenda dei corleonesi, la storia dura da cinquant'anni. I corleonesi di Luciano Liggio costruirono le proprie benemerenze nella repressione del movimento comunista dei braccianti. La strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947), l'uccisione di decine e decine di militanti comunisti e socialisti (Anni Quaranta e Cinquanta) sono i loro biglietti da visita. Che «ideologia» hanno i corleonesi? Sono filoamericani, perché con l'entrata degli americani in Sicilia hanno cominciato a fare affari. Sono, in qualche forma, indipendentisti: in pratica chiedono che non siano dei magistrati «italiani» a giudicarli, ma dei magistrati «siciliani». Ben presto però i corleonesi si legano a settori dello Stato italiano. Collaborano all'eliminazione di Salvatore Giuliano, lo scomodo bandito separatista, e da questa loro partecipazione ot¬ tengono lo status di un piccolo servizio segreto. Confluiscono nella democrazia cristiana siciliana, riuscendo il più delle volte a controllarla, spesso e volentieri anche con l'uccisione dei loro leader ribelli. L'elenco è lungo. Trattano direttamente con i vertici dello Stato se partecipare o meno ad un progettato colpo di Stato fascista, quello proposto loro nel 1970 dal principe Junio Valerio Borghese (non accetteranno, e questo costituirà un altro loro vanto); sono intimi del potere romano e sono abituati a riconoscere nei «disturbatori» che periodicamente li mettono sotto inchiesta, null'altro che «dei comunisti». Il termine «comunista» è sempre stato usato, dai mafiosi siciliani, come sinonimo di «alieno», «pericoloso», qualcosa di «italiano» e «non sici- liano» ed è significativo che sia sempre stato definito «comunista» il magistrato non acquiescente: da Terranova, a Chinnici, a Falcone. E non è assolutamente un caso che Riina faccia oggi i nomi dei «comunisti» da cui il nuovo governo (ma per Riina «un governo vale l'altro», comunque) dovrebbe guardarsi: dai comunisti, che sono «italiani», non «siciliani». Così come sono chiare le sue proposte al tavolo delle trattative: liberatevene, oppure ce ne libereremo noi. Decidete. Per mandare un messaggio così esplicito, Riina deve essere di sperato. Nella storia di Cosa nostra, un linguaggio simile, non dissimulato, non era mai stato usato. Che voglia migliori condì zioni per sé, è palese. Ma il suo è stato anche un discorso politico: lasciate la Sicilia ai siciliani, che da soli la sanno amministrare Non fatene un «problema nazionale», un problema «italiano», perché queste sono cose «da co munisti». «Io non ho da pentirmi di niente» ha aggiunto Salvatore Riina, facendo intendere «io sono sempre stato dalla parte giusta». Sa, naturalmente, di che cosa sta parlando e a chi sta parlando. E così, mentre il dibattito sul comunismo langue in tutta Europa, esso riprende prepotentemente in Sicilia. A meno che si ritorni a dire che la mafia non esiste, e che quelli di Riina sono vaneggiamenti di un mafioso di provincia. Possibile anche questa ipotesi. Enrico Deaglio E tutto cominciò con la repressione dei braccianti Qui a fianco Luciano Liggio sotto: Giovanni Falcone
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