Buscetta un piano per battere i pentiti di Francesco La Licata

m Padova, testimone al processo Contrada: «Si sta giocando con la dignità di alcune persone» m Padova, testimone al processo Contrada: «Si sta giocando con la dignità di alcune persone» Buscetta: un piano per battere i pentiti E Moroni: contro i boss la polizia avrà più forza PADOVA DAL NOSTRO INVIATO Calmo e suadente come sempre, Buscetta l'ammaliatore fa la sua ricomparsa nelle aule di giustizia. Stavolta è l'aula bunker di Padova, dove il Tribunale che dovrà giudicare Bruno Contrada si è trasferito per interrogare il «numero uno» dei collaboranti. E don Masino non tradisce le aspettative. Come quella volta a Roma, nel supercarcere di Rebibbia, durante lo spettacolare confronto con Totò Riina «padrino» corleonese, Buscetta polarizza l'attenzione, tiene il pubblico appeso al suo «testo», alla stessa marnerà delle più consumate maschere teatrali. Eppure non recita, Bucetta. 0 meglio, si limita a mettere in scena il personaggio di se stesso. E' così, don Masino: le cose che dice sono la sua filosofia di vita. Il suo carisma sta proprio qui, nella completa mancanza di supponenza, nella rimarcata modestia che all'ascoltatore arriva come garanzia di autorevolezza. Così, ieri mattina, le ragioni del pentitismo mafioso non potevano ricevere miglior sostegno. Buscetta ha parlato di Contrada, ha ripetuto le terribili accuse rivolte all'ex capo della squadra mobile di Palermo con il tono di chi è quasi dispiaciuto di «dover confermare» quanto ebbe a dire prima al giudice Falcone, poi ai magistrati della procura di Palermo. Ma ha voluto anche intervenire per mettere in guardia tutti dai pericoli nascosti tra le pieghe di polemiche che potrebbero portare ad una disincentivazione della lotta alla mafia attraverso lo svuotamento della legge sui pentiti. Fasciato nel suo tradizionale blazer blu, don Masino ha retto a tre ore di interrogatorio che spesso si è trasformato in una lezione sul «comune sentire della mafia». A proposito del recente dibattito sul pentitismo, ha scandito con voce ferma: «Vedo che si sta giocando con la dignità e l'onore di alcune jjersone. Si sta parlando 1 di un problema che è sorto improvvisamente e non si sa chi sia ad orchestrarlo». E all'avvocato Milio, che gli coritóstaTcóncetti ideologici», replica: «La mia non è ideologia. La mia, avvocato, è stata sofferenza». Buscetta ha preso spunto dalla sua esperienza personale per cercare di spiegare il travaglio interiore che si agita nella mente di chi decide di dissociarsi da Cosa nostra. Ha ripetuto i motivi che lo hanno indotto a riprendere, ed ampliare, la collaborazione dopo la morte del «povero dottore Falcone». «Il sacrificio del giudice - ha commentato - meritava che, almeno da parte mia, alcuni altarini dello Stato fossero scoperti. Io pensavo che si fosse veramente convinti di lottare la mafia. Ma è stato solo un fuoco di paglia. Me ne sono tornato negli Usa dopo aver spiegato in un'intervista le mie ragioni ed dopo aver predetto che i pentiti sarebbero stati avversati. Esattamente come sta accadendo». «Le cose che ascolto nei dibattiti di avvocati, giornalisti e politici - ha proseguito don Masino - non le capisco bene. Io non ho mai fatto male a nessuno, semmai ho ricevuto tanto male. Non mi sono mai inventato nulla. Ho fatto deposizioni su cose che avevo appreso o che avevo vissuto, mettendole nelle mani della magistratura. Io non sono stato ban- co d'accusa, sono stato testimone d'accusa. Ed oggi devo sentire discorsi come se i giudici, in questi 10 anni, si fossero messi d'accordo coi collaboratori per concordare le dichiarazioni. Questo non è vero: io sono una persona per bene, mi sento la dignità a posto. La mia è stata la scelta personale di un uomo che ha visto la propria vita come una pagina ingiallita che bisogna buttare via. Mi hanno accusato di non aver voluto parlare di politica, senza considerare che Cosa nostra non era una banda di gangster ma una forma di antistato. Falcone insisteva perché io parlassi di politica, ma io replicavo: "No, perché finiamo io al manicomio criminale e lei al manicomio civile". Nel 1984 srebbe andata certamente in quel modo». Contrada? Buscetta ripete ciò che ha detto ai magistrati: «Riccobono mi disse che lo teneva in mano». Don Masino racconta che il boss di Pallacivino, il suo amico Rosario Riccobono, gli proponeva di rimanere a Palermo per fare il capomandamento della sua «famiglia» d'origine. Buscetta obiettava: «Non è prudente, visto che sono latitante». E l'altro: «Non c'è problema, io ho Contrada che mi avverte se arriva la polizia». Don Masino riferisce ciò che ha sentito con le proprie orecchie, conferma che anche il boss Bontade sapeva di questo presunto feeling tra Contrada e Riccobono, tanto che ebbe a confidargli che in senso alla «commissione» di Cosa nostra c'era «il mormorio che Riccobono era uno sbirro». Buscetta racconta tutto ciò evitando qualunque eccesso che potrebbe portare a credere ad una vendetta personale nei confronti del funzionario accusato di collusione con la mafia. Anzi alla domanda se avesse mai avuto contrasti con l'im¬ putato, don Masino riferisce che una volta Contrada lo portò in manette da Roma a Palermo, in treno. Buscetta si lamentò delle torture subite dalla polizia brasiliana e il poliziotto gli rispose che anche in Italia sarebbe stato bene torturare i mafiosi. L'udienza si è conclusa con un chiarimento: perché nell'84 non aveva fatto il nome della fonte su Contrada e cioè Riccobono? Buscetta ha spiegato che «quel verbale è nato male perché io non volevo parlare di quell'argomento. Falcone volle verbalizzare lo stesso, così alcune cose non le feci scrivere». Anzi, dice Buscetta, fu scritto persino che la polizia di Palermo non era collusa. E' questo il suo giudizio? Alla domanda dell'avvocato Sbacchi, don Masino replica: «H mio giudizio è pessimo». Francesco La Licata m