Vinta Lisi: e domani torno al mercato di Armando Caruso

Incontro con l'attrice che ha vinto a Cannes: recita da quando aveva 14 anni Incontro con l'attrice che ha vinto a Cannes: recita da quando aveva 14 anni Vinta Lisi: e domani torno al mercato Sono una brava donna di casa, mi piace fare tutto da sola Per interpretare Caterina de'Medici ho indossato terribili busti Applaudito recital al Teatro Regio Nucci, gran factotum e Tosti con dolcezza Tra romanze, canzoni, arie d'opera un affettuoso dialogo col pubblico Scortata dal figlio trentunenne Corrado, vestita con un completo color crema, i capelli raccolti in una semplice coda, Virna Lisi, cinquantaséi anni, nata ad Ancona, sposata dal '60 con l'architetto Franco Pesci, stringe fra le braccia il fascio di quotidiani pieni di foto che la ritraggono felice e piangente mentre ritira il premio per Caterina de' Medici in «La Reine Margot» di Patrice Chereau. Ieri pomeriggio, appena rientrata a Roma, nella sua villa dell'Olgiata, dopo il trionfo di Cannes, si è messa all'opera per organizzare una gran cena familiare di festeggiamento: «Guai se, facendo questo mestiere, non fossi riuscita a mantenere vivo il rapporto con la normalità di tutti i giorni, con gli affetti familiari, con le faccende domestiche...». Ecco la Lisi: sofisticata e perfezionista, ma anche dolce e molto alla mano, sulla scena da quando, quattordicenne, recitò con Giacomo Rondinella in «Napoli canta» e potè felicemente trascurare l'istituto commerciale dove studiava con scarso profitto. «Ero una gran somara, per lo studio nutrivo un enorme disinteresse e spesso sono anche stata bocciata: recitare, prima di ogni altra cosa, ha significato per me la liberazione dalla scuola». D'altra parte erano gli stessi insegnanti a scoraggiare la madre della Lisi («Ma lasci stare, signora, - ripetevano - sua figlia è così carina!»). Fu così che Virna Lisi cominciò a lavorare nel cinema: prima a Cinecittà, poi a Hollywood dove i maghi dello star-system videro in lei la perfetta sostituta di Marilyn Monroe, poi di nuovo con registi italiani, da Maselli a Comencini, da Brusati a Lizzani, da Samperi a Lattuada. «Il primo ruolo importante me lo affidò Germi in "Signori e signore": sul set, anche senza parlarmi, riusciva a farmi capire cosa dovevo fare... Ma di belle occasioni ne ho avute tante, per esempio in "Al di là del bene e del male" con Liliana Cavani che per prima ha intuito certe mie potenzialità espressive e mi ha dato un ruolo in cui, per sembrare molto CANNES più vecchia, dovevo sottopormi a un lunghissimo trucco. Anche a un film come "Buon Natale, Buon Anno", che ha avuto un'assurda distribuzione nelle sale, sono molto legata: ho scoperto Luigi Comencini un uomo capace di grande tenerezza». Tanto cinema. Ma anche tanta televisione («E non se ne vogliono andare», «E poi se ne vanno», «Passioni») nella vita di un'attrice che ha sempre tanto lavorato, che non riesce a capire la mania per i lifting e per il silicone, che l'altra sera a Cannes, ai giornalisti che le hanno chiesto qual era il suo più grande desiderio, ha risposto schietta «mettermi un paio di pantofole». Dice Virna Lisi: «I personaggi televisivi danno grande popolarità; ho ricevuto centinaia di lettere per quelle interpretazioni DAL NOSTRO INVIATO ed è stata una bella gratificazione professionale. Putroppo se succede che fai una volta una parte di madre e la cosa funziona, poi capita che ti propongono solo madri per anni. In Italia la tendenza a catalogare è sempre fortissima». Dopo Caterina de' Medici («Non mi sono solo imbruttita e invecchiata, ho anche indossato dei terribili busti che mi hanno fatto perdere ogni giorno vari chili»), Virna Lisi non ha ancora scelto un nuovo personaggio: «Sono anche una brava donna di casa piuttosto accentratrice, mi piace fare tutto in prima persona. Pure la spesa al mercato». Ci andrà anche oggi, dopo il premio e le foto, ovunque? «Magari proprio oggi no, ma domani...». Fulvia Caprera Virna Lisi è rientrata ieri da Cannes. «Recitare, per me, significò soprattutto liberarmi dalla scuola». Prima lavorò a Cinecittà, poi a Hollywood. Ebbe con Germi il primo ruolo importante. Tanto cinema ma anche tanta tv: «Quando azzecchi un ruolo, non te ne liberi» TORINO. Leo Nucci, il Figaro per eccellenza del nostro tempo, ma anche lo scaltro Dulcamara, venditore dell'«elisir di lunga vita», il panciuto Falstaff del debutto al Regio, si presenta in frac per «parlare» col pubblico: «Siamo tra amici, sono qui per farvi ascoltare romanze di Tosti e arie di Verdi». E s'abbandona a «Donna vorrei morir». Paolo Marcarmi al pianoforte lo asseconda con discrezione, affettuosamente. E viene il «Brindisi» di Verdi e subito dopo «Per me giunto è il dì supremo» da Don Carlo ed il dolente e sospirato «Non t'amo più». Leo Nucci strappa applausi ad ogni nota: si capisce che il pubblico lo ammira e gli vuol bene. Ed egli con quella sua bonomia tutta emiliana dice: «Vi canterò "Aprile" che eseguii accompagnato da Sir Georg Solti al Festival di Salisburgo, dove però non avevano la musica. Mi dissero: "Leoncaval- 10 non ha mai scritto "Aprile". Mandai loro una fotocopia della canzone col testo scritto in tedesco. 11 mio archivio era più fornito di Il baritono Leo Nucci pquello del festival». Leo Nucci canta a voce piena, dice a mezzavoce con dolce espressività, spara «sol» e «fa diesis» come li avesse in tasca. E il pubblico s'accalora. Che altro propinargli allora se non «Musica proibita» scritta dal torinese Gastaldon? Siamo all'inizio del Novecento; e giù ancora con «Zazà, piccola zingara»: è un godimento. Quindi Nucci torna all'opera con «Vien Leonora...» (Favorita di Donizetti) da re innamorato e combattivo. L'attitudine al canto legato supera ogni stravagante tentazione di strafare. La cabaletta è superata con intelligenza, le asperità improvvisamente appaiono come pietre levigate. Il tempo di «A' vucchella» è come un dolce ricordo. Poi Nucci ucci intona «Voce 'e notte»: «la più bella canzone napoletana...» e finisce con «Eri tu...» dal Ballo in Maschera. Ma il pubblico non lo molla, invoca i bis: dopo «Nemico della patria» da Chénier e «Pari siamo» da «Rigoletto», dice: «Vi faccio ascoltare un'aria che si dovrebbe cantare sempre all'inizio». E in lui si risveglia il Figaro di sempre: dizione chiarissima, scioglilingua che è un magistero di intelligenza e spirito vocale, «sol» finale alla grande. Ci vien da pensare: «Nucci non abbandoni mai il Barbiere, per favore». Ma Nucci oggi è il «numero uno» e quindi gli chiedono di tutto, anche di cantare «Pagliacci». E lui con una mano nel cuore non si sottrae: «Signori, scusate se da sol mi presento...». Il pubblico scatta in piedi. Leo Nucci come i grandi: simpatico, bravo e disponibile. «Senza drammatizzare». Come dice sempre lui, da buon emiliano. Si ha la sensazione, sentendo cantare quest'uomo così serio professionalmente e gioviale, intelligente e attento ai problemi della vita, che egli oggi sia veramente l'unico rappresentante di una generazione di artisti che appartengono ormai ad un passato remoto. La serietà e l'umiltà con cui Leo Nucci affronta il suo lavoro lo fa amare dal pubblico. Se n'è avuta la misura vera, l'altra sera al Regio. Non si trattava di rendere omaggio ad un divo del bel canto, ma ad un uomo vero, capace di forti emozioni e di capire musica e testo con intelligenza rara. Non per nulla il maestro Mario Braggio, che Tha, diretto anni fa in «Rigoletto» e in altre opere, dice di lui, semplicemente: «E' un ragazzo di rara intelligenza musicale e modesto». Armando Caruso A