E il Papa decretò: cada il governo Rumor di Amintore Fanfani

E il Pupa decretò: cada il governo Rumor In un libro le memorie dell'ex ambasciatore italiano presso la Santa Sede tra il '69 e il 77 E il Pupa decretò: cada il governo Rumor La diplomazia segreta fra il Vaticano, lo Stato, la de OLTRETEVERE E IL PALAZZO PROMA API al telefono, dunque: «A Guido Gonella Paolo VI ha anche detto che si meravigliava della posizione assunta sul divorzio da Malagodi, al quale la S. Sede ha reso un grande servizio, salvando dei beni molto importanti in Brasile...». E Presidenti della Repubblica che fanno le imitazioni, per giunta in dialetto, alle sorelle anziane dei presidenti del Consiglio dimissionari: «Te 10 g'avevo dito mi, Mariano, non sta a dar le dimissioni!» celia con 11 suo vocione Saragat. E invece Mariano Rumor, povero cristiano, pessimo governante schiavo della sua «insondabile pusillanimità», nel 1969 s'era dimesso, come si scopre adesso, su ordine della S. Sede. Erano gli anni in cui i pontefici facevano pesare i favori personali e il Vaticano buttava giù governi con la massima naturalezza. E' Moro a rivelare la fine ingloriosa di Rumor al testimone privilegiatissimo di uno Stato che a distanza di anni appare come uno Stato laico solo in minima parte, per la massima identificandosi con gli interessi della de. Per cui, rivela Moro: «La crisi (del luglio 1969, ndr) è stata direttamente determinata dal Vaticano. Casaroli ha convocato Rumor e Forlani e chiesto le dimissioni del governo come unico modo per impedire o allontanare il divorzio». Questo e altro ancora, verrebbe da dire con l'insolenza misurata degli imbonitori, si trova nel «mostro» di carta lasciato in eredità da un diplomatico onesto e intelligente e da un diarista acuto, come non se ne leggevano da anni. «Mostro», anzi «il mostro», con ironico, affettuoso e anche temibile nomignolo, chiamava Gian Franco Pompei quella mole di documenti di varia natura appunti, lettere, pagine di diario, ritagli di giornale - che testimoniano il suo lavoro e la sua passione di ambasciatore italiano presso la S. Sede tra il 1969 e il 1977. Ecco perciò Un ambasciatore in Vaticano, a cura di Pietro Scoppola (Il Mulino, pp. 604, lire 60 mila), repertorio quotidiano di vicende grandiose e di miserabili scorci d'umanità, miniera di fatti e personaggi restituiti a una dimensione così poco ufficiale da creare, a volte, sgomento. La stagione travagliata del divorzio, certo. Pompei, scomparso improvvisamente nel 1989, racconta con scrupolo le missioni segrete di Cossiga («compagno di tanti, penosi tentativi») alle Botteghe Oscure per correggere la legge; gli sforzi per scongiurare il referendum; il lungo balletto per giungere a una accettabile revisione del Concordato. Tutto documentato «nel calore degli avvenimenti», A , . qualche volta Amintore Fanfani perfino con un certo ritmo. E tuttavia tale è la mole di materiale, e così unica l'opportunità di vedersi svelato, con le sue atmosfere, un mondo di solito nascosto, oppure appena immaginato, che si finisce col considerare quasi scontata la vicenda del divorzio. Così, alla fine, restano impressi nella mente piccoli e grandi frammenti archeologici di vita democristiana e vaticana. Tanto più impressionanti e sorprendenti quanto più, mai come adesso, quell'universo appare concluso, e per sempre. Gli sfoghi di un Moro, ad esempio, che nel 1971 si mostra con Pompei tutt'altro che mansueto nei confronti dei suoi interlocutori vaticani: «Non so come possano, dicendo tante bugie, dire ogni giorno la Messa!». «Moro - si legge - sostiene che non conviene lasciarsi deviare o influenzare. Bisogna essere duri, è l'unico modo d'agire che capiscono. Ci vuole un po' di Europa orientale e trovano subito la maniera di adattarsi». Mentre nel 1975 il presidente del Consiglio Andreotti, per l'Anno Santo, vuol fare bella figura con un dono al Tesoro di San Pietro. Iniziativa sconsigliata vivamente, a meno che non si tratti di denaro, «dell'ordine di un miliardo almeno». Un groviglio di astuzie, di miserie, di ipocrisie, di cerimoniosissime minacce e solide complicità (per esempio nei confronti degli Usa) sembrano governare i rapporti tra il Vaticano e questi de ora estinti. Certo sorprendono, pur nella loro disperante vacuità, le bizze del presidente del Consiglio Rumor che nel 1969 non s'accontenta di una certa onorificenza vaticana: «La Gran Croce di San Gregorio Magno gli sembra modesta - annota Pompei giacché ce l'ha anche il presidente della Banca Cattolica del Veneto (Spada)». Analoga battaglia per far ottenere a Leone un'altra patacca vaticana è ingaggiata, in modo piuttosto umiliante, dal segretario generale del Quirinale Picella. Ma non molla il Sostituto della Segreteria di Stato, Giovanni Benelli: «Dare l'Ordine del Cristo spiega - è quasi una santificazione in vita». In compenso, si direbbe, i governanti democristiani pretendono di essere aggiornati con enorme scrupolo sulla salute di Paolo VI. Così, il diario è fitto di impietosi bollettini psico-fisici: «Periodo di depressione profonda»; «Poveretto, ha difficoltà nella deambulazione»; «Forse, penso, gli danno anche degli stimolanti»; «Il cardinal Villot mi ha detto in sostanza che il Papa non connette più bene, non ci sta con la testa»; «E' incorso in vari errori. Il più notato è che non è riuscito a dire per intero il nome del suo predecessore e alla fine n'è venuto fuori "Giuseppe Giovanni Papa, nostro predecessore"...». Come accade davanti a tutti i grandi diari, anche con questo il lettore resta come diviso tra la sensazione di essere nel respiro della storia e quella di rimanere impigliato in una forma di voyerismo. Atmosfere straniami, sofisticatissime, regolate da un codice antico, misterioso e malizioso. Anche i monsignori di Curia si fanno la guerra in un gioco di in- sinuazioni che di tanto in tanto arriva a lambire e forse ad utilizzare anche l'ambasciatore italiano: «Mons. Benelli mi sollecita notizie sul traffico di quadri. Come per le carrozze - deduce Pompei riferendosi ad altra (inespli¬ cata) vicenda - vuol colpire mons. Macchi!». Il quale sarebbe Pasquale Macchi, il potente segretario di Paolo VI Papa. Quello stesso Macchi «che - è sempre una conclusione che il diplomatico trae da una velenosa allusione di Benelli - con l'interessata complicità dell'architetto Bellini, ha trasformato le sale del Vaticano in tante anticamere della Montedison, falsamente perché costosamente semplici». E in effetti, per rendere le carognate felpate, le perfide sfumature e le più attutite rivalità di questi scontri curiali, oltre alla finezza ci voleva anche una bella penna. Scenetta ragguardevole quando l'ambasciatore, in visita dal cardinal Casaroli, proprio nell'anticamera del segretario del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa, viene raggiunto da Benelli. Ma Casaroli è ormai sulla porta, e vistolo con l'altro monsignore «si ritrae pudico, con gridini e sfarfalleggiare di tonaca». Dei due grandi diplomatici vaticani quest'ultimo, allora al lavoro anche sul Concordato spagnolo, pare all'ambasciatore il più sottile e realistico: «Alla scuola di Metternich tratta con chi ha il potere. Soggiunge ridacchiando e toccandosi alternativamente il braccio sinistro e poi l'altro: "In Italia considerano me il braccio sinistro e Benelli il destro; in Spagna io sono il braccio destro e Benelli il sinistro..."». Benelli, al contrario, è più generoso, irruento e anche più sincero. Capace di esprimere in questo modo brutale la sua contrarietà di fronte a un'intervista di Leone: «Se voleva dire che gli piacciono le donne non poteva scegliere un po' meglio di Oriana Fallaci?». Ma non solo Leone è antipatico a Benelli: «Sul Presidente ha molta influenza il figlio. Quello un po' infelice» confida identificando Mauro «con una mossa delle spalle, come a dire "il gobbette"». Stesse spallucce gibbose, tra parentesi, simula l'assistente dell'Azione Cattolica Costa per intendere Andreotti. Certo che anche Leone si fa notare oltre il portone di bronzo. L'ambasciatore ricorda quando, infreddolito dopo una cerimonia all'aperto, il presidente «chiede due caffè caldi nella cappella della Pietà. Ci hanno detto registra sconsolato - che non era mai successo. Finale all'italiana. Che bella dignità». E' esattamente questa dignità, se si escludono Moro e un po' anche Colombo (peraltro beccato a confidare, dopo la sconfitta elettorale del 1975, un sorprendente, triplice «Siamo nella merda, nella merda, nella merda!»), che manca ai governanti democristiani nei rapporti con la S. Sede sul divorzio. Una, due, tre, infinite volte la tela faticosamente tessuta da Pompei per migliorare la legge e evitare lo scontro referendario viene strappata o compromessa da iniziative che i capi de, ognuno per proprio conto, mettono in atto per ingraziarsi, l'uno contro l'altro, i favori vaticani. In quella che l'ambasciatore definisce con efficacia «la nube degli intermediari zelanti», abusivi, lungo un arco di sei-sette anni si distinguono Fanfani (tramite «il cardinal Bernabei» come lo chiama Monsignor Bonicelli), Forlani, che utilizza o è utilizzato dal cardinale marchigiano Palazzini, oltre naturalmente all'onnipresente Andreotti. Con il risultato finale che se il divorzio e referendum precipita, lo si deve soprattutto agli equivoci, alle ambizioni personali dei capi de che brigano, si inseguono, si danneggiano a vicenda. Il punto di non ritorno è il 1971, quando il negoziato che l'ambasciatore sta per condurre felicemente a termine s'incrocia con l'imminente elezione del Presidente Giulio Andreotti della Repubblica, e va a scontrarsi con la logica delle inimicizie e dei veti incrociati. «In sintesi questa la più eloquente spiegazione dell'ambasciatore - Fanfani temeva che l'operazione (che comportava l'accordo dei comunisti) favorisse l'elezione di Moro al Quirinale e Andreotti (che si distinse lanciandosi in una irreale ma disturbante proposta) che favorisse l'elezione di Fanfani». Un capolavoro di autolesionismo. «Osservo che ciò che più interessa e vivifica questi uomini è l'amara constatazione - sono le lotte intestine e relative formulette». Vero è che anche da parte della Chiesa la volontà di evitare lo scontro non è poi così forte. Senza troppi sacrifici, cautamente, tiepidamente, proseguono quindi queste par . colarissime relazioni diplomatiche. Nel 1972, come se fosse del tutto normale, il presidente del Consiglio Andreotti fa pressioni sulla Segreteria di Stato contro sacerdoti e Acli del Veneto «che appoggiano il movimento di Labor». Mentre con la stessa freddezza il governo italiano si dà da fare per dare una mano a certi fraticelli imbroglioni che «hanno costruito per un miliardo e mezzo senza licenza, sotto un elettrodotto ad alta tensione e adesso pretendono la licenza per l'agibilità di un albergo...». C'è Benelli che protesta contro I diavoli di Ken Russell presentato a Venezia, e Emilio Colombo che si dispera perché ha già visto il Decamerone di Pasolini, ed è anche peggio. C'è la questione della metropolitana di Roma che violerebbe l'immunità diplomatica vaticana passando sotto la Scala Santa. E sembra una scena felliniana di Roma, forse la simbolica, degna conclusione per l'utilissimo «mostro» dell'ambasciatore. Filippo Ceccarelli Gian Franco Pompei visse da protagonista la stagione travagliata della legge sul divorzio «Fu Casaroli a convocare il primo ministro e Forlani per chiedere le dimissioni» Tra gli inediti anche lo sfogo di un Moro furente: «Non so come possano, dicendo tante bugie, celebrare messa ogni giorno» Leone antipatico a mons. Benelli: «Gli piacciono troppo le donne» Colombo avvilito dopo la sconfitta nel referendum: «Siamo nella m...» Sopra, Mariano Rumor A destra, I cardinale Casaroli Nella foto grande, papa Paolo VI in compagnia dell'ex presidente della Repubblica Giovanni Leone A , . Amintore Fanfani Giulio Andreotti