La critica da Manzoni a Sereni

La critica da Manzoni a Sereni La critica da Manzoni a Sereni scrittura dei primi Promessi Sposi, e lo stesso (parrà incredibile: la scoperta è divertente e rara) che Vittorio Imbriani usò come fonte di voci o modi della lingua «furbesca» per la stesura della sua boccacciana Novella del vivicomburio (1877). Per questa strada lungo la linea lombarda si scandiscono numerose tappe del non lineare cammino al Novecento. Ad esempio, lo scavo nelle strutture linguistiche dell'espressionismo dossiano permette a Isella di riconoscerne la natura, non solo lessicale ma radicalmente ritmico-musicale, che «nella prosa realizza il suo potenziale poetico». Mi sembra acuto e opportuno il suggerimento che in questi valori prosodici, in questa liricità diffusa nel tessuto narrativo, più ancora che nelle tensioni stilistiche dell'espressionismo novecentesco, sia anticipata la fioritura della grande prosa d'arte italiana, «tra le "faville del maglio" e i "pesci rossi"» (e vorrei aggiungere che alla commistione di simili profonde armoniche dossiane con il frammentismo di Solaria va probabilmente ricondotta quella liricità da cui Gadda dichiarerà di volersi sbozzolare, progettando nel '24 il primo romanzo, poi fallito, Racconto italiano di ignoto del novecento). E per quanto Gadda abbia sempre dichiarato di aver letto Dossi solo tardi, dopo aver pubblicato le prime opere su Solaria, la coerenza si tiene, appunto, sull'orizzonte "Mr°v. A un buon mezzo selli ^ co"0' ormai< l'idea di S |n 11113 «li1163 lombarda» p| im di stampo espressio- « ■ nistico, o se si vuole | H espressivistico, ha flH preso corpo e profilo flf nella storiografìa let^ teraria italiana. La afflai dobbiamo, come non poche altre acquisizioni epocali in questo settore, a Gianfranco Contini: ventenne appena quando (1934) intuì precocemente la contaminazione espressiva del Castello di Udine e la sua portata teorica, delineata poi con sempre più puntuale nitidezza trattando di Gadda «traduttore espressionista» (1942) e lavorando (1942-43) sull'antologia degli scapigliati piemontesi (edita da Bompiani solo nel '53), su Giovanni Faldella (1946-47), infine sulla celebre introduzione alla Cognizione del dolore (1963), a cui gli scritti precedenti stanno come i «cartoni» all'affresco compiuto. Fin dal primo momento Contini evocò i nomi di Dossi e di Linati (quello di Porta s'aggiunse poco dopo), e mirò deciso al disegno di una continuità storico-geografica di cui in realtà solo oggi, alla luce di Dionisotti, della grande Letteratura italiana Einaudi e di rari, preziosi interventi specialistici, riusciamo a cogliere appieno la novità e la consistenza. La questione della lingua in Lombardia non è morta con il Manzoni, diceva Contini. Quegli scrittori lombardi «sentono la lingua nazionale come una preziosa conquista, quasi trascendente: non altra cosa dal loro senso della natura, sinfonico e insieme minuzioso, vivace quanto poco pacifico». La linea lombarda si rivela infine una dimensione non circoscrivibile in un orizzonte regionale; è piuttosto una latitudine metastorica della cultura, una dominante umorale-comunicativa, l'umbratile gusto stilistico per la saldatura del geometrico e del variopinto, dello schema e dello sciame; e, alle radici linguistiche, della lingua unitaria e del dialetto, con i suoi molti strati profondi di sapienza antica. Per definirla non varranno nomenclature o tassonomie. Si tratta d'una pronuncia d'un carattere stilistico che traduce la riflessione degli intellettuali «lombardi» intorno alla tradizione «italiana» ed al proprio ruolo in (ossia attraverso) essa. Gadda medesimo ammetteva d'essere soprattutto «lombardo, e cioè conterraneo del Folengo, anzi milanese, e cioè concittadino del Porta». Contini (a cui peraltro dovettero rimanere ignoti molti importantissimi materiali gaddiani, editi solo in parte da Roscioni pochi anni fa) avrebbe poi esaltato l'attività, entro la «funzione Gadda», di questa «linea espressionistica lombarda» (a vero dire forse eccessivamente, specie per la Cognizione, dove l'iceberg degli inediti impone di riconoscere soprattutto la disarmonia prestabilita del «barocco» leibniziano), fino a ritagliare la silhouette un po' troppo riduttiva di un Gadda farcitore e «macaronico». Non a caso l'albero di quella prosapia si radicò proprio nell'introduzione alla Cognizione: là svettò su su fino ai poeti «facchineschi» del Cinquecento, a Folengo appunto, al Beolco, all'«espressionismo trecer sco». In cima, alternativo al Pe iarca (archetipo della corrente di tradizione «addetta al "tragico" in modo esclusivo»), ovviamente il polo espressivo-sperimentale di Dante: il quale, «anche se (...) non assolutamente il punto di partenza, è però il gran nodo che qualifica la linea ascendente di Gadda». Una limpida, partecipe, intelligente ricostruzione del progressivo maturarsi in Contini (e, mediante lui, nella nostra critica letteraria) di quest'immagine felice ed anche assai efficace la offrì nel 1984 Dante Isella, durante un Convegno linceo dedicato appunto all'«Espressivismo linguistico nella letteratura italiana». Oggi quel saggio viene riproposto, nel cuore d'un bel volume einaudiano (L'idillio di Meulan. Da Manzoni a Sereni, pp. 353, L. 44.000), come pilastro della sezione forse più notevole, intitolata La «funzione» Porta-Dossi-Gadda, su cui s'incardina la maggior parte delle ricerche, variegate ma coerenti, raccolte nel libro. Ricostruendo le polemiche seguite all'uscita dell'Altrieri (1868) Isella dimostra come Carlo Dossi frugasse, in cerca di parole curiose ed espressive, nel celebre Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini (1839-52): lo stesso su cui già Manzoni aveva impiantato il proprio eterno lavoro di ri¬ Isella pubblica «L'idillio di Meulan» della linea dialettale lombarda, che riconduce lo stesso Dossi a Porta, e più in là, fino al secentista Carlo Maria Maggi: «Così che la "funzione Gadda" della nostra letteratura (...) può chiamarsi, altrettanto legittimamente, la "funzione Porta", entrambe volendo significare la continuità di una linea espressionistica che la percorre dalle origini ai nostri giorni» (così Isella nello scritto, qui ripreso, che due anni fa accompagnò la versione francese della Cognizione dovuta a Martine van Geertruyden). In realtà fu Gadda medesimo, in un'occasione che oggi appare davvero straordinaria per la qualità dei soggetti implicati, ad autorizzare in modo implicito questo rispecchiamento «a ritroso» della funzione intestata al suo nome (ma per l'eccentricità della sede mi sembra che la cosa sia sempre sfuggita, e comunque non è mai ricordata, né da Contini né da Isella). Parlo della sua recensione, trasmessa il 15 giugno 1954 dal Terzo Programma della Rai, all'edizione critica delle poesie di Carlo Porta approntata da Dante Isella (il testo è pubblicato ora da Giulio Ungarelli, sul dattiloscritto inedito, in Gadda al microfono. L'ingegnere e la Rai, 1950-1955, Nuova Eri). In tale occasione Gadda, con termini assai prossimi a quelli usati nell'Apologia manzoniana stampata giusto trent'anni prima su Solaria (e in cui si cela il germe genetico della futura Cognizione del dolore), insistette sulla conti¬ nuità morale-letteraria che salda il Sette e Ottocento mediante una linea solida ed autoilluminantesi: «Il Parini, il Porta, il Manzoni furono, in terra lombarda, gli araldi di una nuova etica sociale. Massimo, certo, l'autore dei Promessi Sposi, la cui attitudine così pensosa dei destini e degli eventi si estrinseca in un'opera più stupendamente ricca di significati morali e civili». E' perfino emozionante seguire, nel collage di studi qui ristampati, l'armonico conservarsi e svilupparsi del «tema lombardo», anche al cu là dell'orizzonte espressivistico, attraverso successive variazioni che, con termine montaliano, direi le occasioni critiche di Isella. I rapporti tra il Manzoni e il Fauriel nel tranquillo ricetto di Meulan (da qui il titolo dell'intero volume), e le vie lungo le quali «il quieto ruscello dell'idillio della Maisonnette», finisce, in anni di tempesta per l'Europa e, per Manzoni, di riflessione ed esercizio teorici, «col versare il suo limpido filo nella corrente tumultuosa degli Inni». Una parabola della letteratura in milanese incentrata sul Cherubini, mediatore fra dialettalità e lingua «nazionale» col Vocabolario, ma altresì nella veste di editore della Collezione delle migliori opere scritte in dialetto milanese in cui figurò anche il Porta. Il gustoso ripescaggio archeologico delle prime strenne editoriali, sbocciate sulla scia dei Keepsakes inglesi nella Milano degli Anni 30 dell'Ottocento. L'illustrazione della «milanesità» d'un poeta come Delio Tessa, capace di riscattare all'altezza del rniglior simbolismo italiano l'«estenuato grigiore della poesia dialettale milanese tardo ottocentesca», con la sua ricerca timbrico-ritmica «nutrita di un'esperta educazione musicale» (i nomi per diverse ragioni evocati in parallelo sono Gozzano, Ungaretti, Palazzeschi). Nelle pagine che ripercorrono i passi di Montale da Firenze a Milano, l'intelligente adattamento alle versioni dei sonetti di Shakespeare del principio continiano (applicato a Petrarca nel 1941) dell'analisi delle compensazioni strutturali attuate nel processo correttorio o rielaborativo, e soprattutto la finissima utilizzazione esegetica d'un mannello di lettere spedite da Montale a Bobi Bazlen nel 1939, che consentono di proiettare luce radente sulle ultime Occasioni, sciogliendo molti nodi interpretativi. Bella fra tutte la sezione Per Vittorio Sereni: vi risalta, nel «poeta di un "unico libro"» (di cui Isella è il più compiuto interprete), la ((novità degli ultimi esiti come il frutto di una lunga fedeltà» (sintagma tipicamente continiano), e la sostanziale adesione del poeta di Frontiera, di Strumenti umani, di Stella variabile, alla linea petrarchesca: «Se è lecito nominare dal Petrarca, per analogia, qualsiasi processo di decantazione della complessità del reale per estrarne delle levigate essenze primarie, tedi da riassumere in sé, sublimandolo, l'intero universo» (e qui credo di sentire l'ispirazione di un grande «fiorentino», il Giuseppe De Robertis del commento a Lo sera del di di festa: «Sostanza prima di divini frammenti»). Una «lingua così studiosamente parca, così riduttiva», quella di Sereni, collocabile «più nel solco della lezione di Ungaretti e del primo e miglior Quasimodo che non di Montale», ed anche «nei paraggi ben noti di certo Saba». Lingua che, per ammissione di Sereni stesso, «in armonia con i "più avanzati tentativi della poesia d'oggi" tende "a emulare le nuove codificazioni della musica atonale"» avvicinandosi alle forme del poema in prosa. E ancora una volta riemerge qui il nome del Montale «milanese», della sua lezione straordinaria, da Satura ai versi di congedo, che Contini, con Rosanna Bettarini, rilegò nel monumento dell'edizione critica. Le ultime pagine sono proprio per Contini, l'insigne ispiratoreamico, l'intellettuale che, lavorando per diventare postcrociano senza essere anticrociano, insegnò alla filologia e alla critica italiane a chinarsi con limpida etica di lettore «sui concreti atti di parole operati dall'autore, nel tendere al proprio fine» (e qui il giro di frase è, invece, gaddiano). U gruppo di famiglia («da Carlo Maria Maggi a Carlo Emilio Gadda») che Isella aveva intelligentemente riunito nel 1984 con ILombardi in rivolta si completa così, nell'affabile, affettuoso colloquio del critico con i più grandi sodali: il poeta, il maestro. Corrado Bologna

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