Lévy nella «Bosna!» contro i barbari serbi di Alessandra Levantesi
r Certain Regard: critiche al film del filosofo Lévy nella «Bosna!» contro i barbari sorbi CANNES. «Un militante puro» lo chiama L'Express intendendo spregiosamente «manicheo» e «Première» ironizza: «In fondo perché no? La propaganda è un genere che appartiene soprattutto alla storia dei regimi totalitari, ma è comunque un genere, non si può vietare a nessuno di servirsene. Però bisogna saperlo fare...». Insomma con il suo «Bosna!», in programma a Certain Regard e firmato a quattro mani con l'usuale collaboratore Alain Ferrari, Bernard-Henri Lévy si è attirato un mare di critiche, così tante che viene voglia di difenderlo. Intanto perché il discusso filosofo non ha nessuna intenzione di apparire neutrale. Girato per metà dalla sua troupe e per metà montato con materiali d'archivio, il documentario è un dichiarato omaggio all'eroica Bosnia Erzegovina fatto con i toni accesi del pamphlettista e in prima persona. E' lo stesso Bernard che recita il suo testo e brevemente persino si mostra, esaltando la figura del presidente Izetbegovic, un uomo di pace che continua a definirsi poco tagliato per la guerra; spiegando che i serbi sono barbari malati del sogno della Grande Serbia e soprattutto che l'Occidente fingendo di non avere occhi per vedere e orecchie per sentire si sta rendendo a tutti gli effetti complice di un massacro. In qualche modo il film è complementare a quello realizzato con mezzi di fortuna da quattro autori bosniaci sull'assedio di Sarajevo, «l'uomo, Dio, il mostro» presentato venerdì scorso alla Quinzaine: tre episodi assemblati che raccontano la cronaca quotidiana di un'orgogliosa sopravvivenza agli orrori del conflitto. Salvo che nel libello di Lévy il partito preso è molto più deciso. Ci sono campi di concentramento - e qui immagini di prigionieri pelle e ossa degne di Auschwitz - e se ne vuole negare l'esistenza, tuona il francese; si pratica lo stupro come strumento di pulizia etnica, si devasta e si sgozza, si gettano granate sulle scuole e sui mercati uccidendo creature innocenti e gli occidentali continuano a nicchiare. Sembra una macelleria, affermano i detrattori davanti alle scene raccapriccianti che l'autore non lesina. «E' la società dello spettacolo che mostrando la finta morte fa grand-guignol» risponde Lévy, «questo libro di morti veri me lo hanno affidato i bosniaci per aprire gli occhi al mondo». Non è forse storicamente attendibile il nostro quando paragona la resistenza armata dei volontari sulla trincea di Grondj ai combattenti del '36 a Madrid op¬ pure Izetbegovic a De Gaulle. Ed è probabile che la sua oratoria si avvarrebbe di una maggiore stringatezza e di una minore enfasi letteraria. Tuttavia alla fine si esce dalla visione col sentimento forte di una Sarajevo che serbi, croati, musulmani, cristiani e ebrei convivendo insieme nei secoli hanno contribuito a rendere cosmopolita. Città simbolo di uno spirito europeo tollerante e pacifista che i risorgenti neofascismi e neocomunismi, Lévy dixit, con il loro corredo di valori sciovinisti, populisti e nazionalisti mirano a distruggere. Ed è difficile non condividere l'impressione che al di là delle ragioni e dei torti nella povera e dilaniata Sarajevo rischia di morire una certa idea dell'Europa. Alessandra Levantesi L'orrore del conflitto anche in «L'uomo, Dio, il mostro» Bernard-Henri Lévy il filosofo francese molto criticato
Persone citate: Alain Ferrari, Bernard-henri Lévy, Bosna, De Gaulle, Izetbegovic
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