Long, il titano delle pietre

Long, il titano delle pietre Il maestro della Land Art a Roma: un'opera lunga trentanni Long, il titano delle pietre La vera provocazione è nella natura -mrì ROMA |m EL 1967, a ventidue an| ■ ni, Richard Long di Bri1 stol calpesta più volte un ± 11 prato inglese in linea retta, fissa in fotografia il risultato di quell'operazione altrettanto fisica quanto mentale già si diceva allora «concettuale» - e intitola A line made by walking: l'azione e il peso del corpo hanno impresso un segno d'ordine, una forma, una memoria del tempo sul libero spazio-ambiente naturale, senza causare nessuna lesione o sofferenza a quella libertà originaria. In poche ore, quél segno è svanito, ma è rimasta la fotografia a documentare l'esordio dell'artista. L'impatto, il coinvolgimento scenico ed emozionale della mostra allestita sino al 30 giugno nel Palazzo delle Esposizioni in via Nazionale, travalicano ampiamente gli schemi che via via hanno cercato di delimitare l'originalità di questa esperienza, Land Art e Concettualismo, «poverismo» e valori antropologici primari. Il punto è che la libertà, mentale e perfino fisica, con cui Long da quasi trent'anni affronta il rapporto universale tra cultura e natura, senza che nell'interazione tra se stesso e i due termini vi siano elementi di squilibrio e prevaricazione, fa sì che la sua opera - o per essere più precisi il suo operare, di cui l'effimero sempre rinnovato e rivitalizzato è un elemento costitutivo - non si lasci incasellare nelle formule critiche e di tendenza di questo trentennio. Il teatro di operazione (e di esperienza) di Long è il corpo del mondo, la sua superficie ovvero pelle, là dove, deserto, montagna, terreno non coltivato e dunque intonso, primevo, l'interlocutore unico ed esclusivo del suo corpo, del suo piede, della sua mano, può confrontare la propria capacità razionale elementare di visualizzare, attraverso il segno, il simbolo (segmento, cerchio, l'ulteriore livello della spirale, del labirinto) con la vocazione della natura intatta a riceverlo; ma anche poi, miticamente, ad assorbirlo e cancellarlo. Lo scambio, ovvero colloquio, dibattito, fra Long e l'ambiente naturale, dall'inizio fino ad oggi, da quel primo percorso sul prato inglese ai successivi prelievi sino a quello odierno del tufo di Tolfa portato qui a dialogare con le beole di Luserna, è alla pari, senza strumenti intermedi. Talora, la linea, il cerchio tracciati da Long nella natura libera del mondo tracciati, sempre, camminando - con materiali offerti dall'ambiente circostante, dopo la fissazione del tempo storico attraverso lo scatto fotografico sono azzerati dallo stesso autore riportando i materiali nel punto di prelievo. Il corpo del mondo. Due anni dopo quella passeggiata e traccia sul prato inglese, Long è già nel Kenya, sul Kilimanjaro mitizzato da Hemingway (e un forte senso del mito e degli archetipi nella contemporaneità è un valore di fondo in Long) e dà allora i suoi percorsi, in cui aleggiano sempre l'aura e il significato del «quest» della grande tradizione culturale inglese, sono spaziati dal Sahara all'Himalaya, dal Fujiama all'Islanda, dalla Valle della Morte in California all'Atlante, dal Rio Grande ai ghiacciai svizzeri, con costanti ritorni alle radici: le brughiere di Scozia e Irlanda. Dopo che Sperone l'aveva proposto già nel 1971 nella Torino «poveristica» (tornerà nel 1984 in Ouverture di Rivoli e più volte negli ultimi anni da Tucci Russo) e dopo che la Gran Bretagna gli aveva dedicato il suo padiglione alla Biennale del 1976, fu emblematica la sua presenza alla Biennale del 1980 Dalla natura all'arte dall'arte alla natura. Era ed è l'altro versante, o forse è meglio dire con terminologia virtuale l'interfaccia della sua creatività: la proposizione e la configurazione della natura nello spazio dell'arte e dunque il ribaltamento del rapporto fra natura e cultura. La qualità assai alta dell'operazione di Long, che lungo più di vent'anni è stata proposta nei musei contemporanei europei, americani, australiani, fino al Guggenheim di New York e alla Tate Gallery di Londra, è consistita nell'aver saputo conservare, nel ribaltamento, i termini essenziali e profondi del rapporto. Quando Long impasta a mano su una grande parete intonacata di nero il bianco del caolino o il marrone della terracotta imprimendo a circonvoluzioni la forma nuda e rigorosa dell'anello o dell'orizzontale, lasciando poi che la colatura e la spruzzatura dellamateria «viva» creino con naturale casualità un alone fantastico e magico che contrasta vitalisticamente la forma archetipica, egli riesce a ricreare e visualizzare nello spazio artificiale eretto e gestito dalla cultura lo spirito dei suoi percorsi e «impressioni» nello spazio libero della natura. L'operazione assume il massimo valore di espressività per contrasto, fino a limiti metafisici, quando si svolge non nell'astrazione tecnologica degli spazi appositamente progettati nel nostro secolo per l'esposizione di opere contemporanee, ma entro i frutti dell'accademia architettonica ottocentesca, neoclassica o eclettica, come nel caso della Tate Gallery o di questo Palazzo romano. Un senso fra magico e onirico di straniamento circola fra pareti, colonne, volte da Pantheon. Si fronteggiano in infilata enormi anelli o fregi orizzontali impastati in caolino o terracotta sulle pareti, ai cui piedi la polvere degli stessi materiali evoca l'elementare presenza naturale. E un ritmo magicamente classico impronta, sui pavimenti marmorei della crociera centrale, l'incontro e l'incrocio fra il rettangolo lineare grigio delle beole valdesi di Luserna, il circolo bianco centrale di marmi di Candoglia e i due anelli «locali» nel caldo marrone del tufo, dedicati dall'autore a Romolo e Remo. Marco Rosei «White mud circle» una delle opere più significative del maestro della Land Art Richard Long (nella foto in basso)

Persone citate: Guggenheim, Hemingway, Land, Land Art, Richard Long, Tucci Russo