Alesi: pagati per lo show non per morire in corsa di Pierangelo Sapegno

Le tragedie non fermano la Formula 1: oggi c'è il Gran Premio di Monaco, lo spettacolo va in scena Alesi: pagati per lo show non per morire in corsa MONTECARLO DAL NOSTRO INVIATO Il brivido della velocità corre dentro di noi, e c'è di nuovo un senso di normalità in tutto questo. Anche Alesi si arrende alla fine di fronte a questo totem: «Più sicurezza, certo. Ma questo è il nostro spettacolo, la nostra vita». Semplicemente, Montecarlo ieri è tornata quella di prima. Schumacher mette i piedi a terra e la prima cosa che sospira è un omaggio a questo fascino misterioso e un po' folle, che ha casa solo nel cuore, non nella testa: «Peccato. Avrei voluto giocarmela con Senna, il pilota più veloce che c'è mai stato». Dov'eravamo rimasti? A due morti e un ferito, al grande Ayrton che non c'è più. Alle polemiche per il rischio, alle minacce di sciopero dei piloti («mai fatte, chi l'ha inventate?», dicono adesso). Alla paura. E allora riprendiamo da qui, con i nuovi record della pista, i passaggi impazziti sui cordoli, le frenate laceranti alla chicane del porto, lì dov'era uscito Wendlinger. Alboreto entra nel tendone della Minardi, si avvicina agli amici seduti attorno a un tavolo: «Mamma mia, quanto si corre. Roba da matti». E Berger spiega ai giornalisti austriaci che «la decisione di correre è la vittoria dei sentimenti sulla testa». E come si fa, allora, a comandare i sentimenti? Così, anche la normalità a Montecarlo, questa normalità, risiede nel cuore. E se qualcosa bisognerà cambiare, dice Alesi, «non si potrà cancellare il fascino del pericolo». Jean Alesi si siede davanti alla folla di giornalisti e comincia a dire che «la Fia ha dato una risposta che io giudico buona. Non si può andare avanti così, con piloti che rischiano la vita. E poi quando succede qualcosa ci sono quelli che dicono: è sfortuna. Ma non è sfortuna quando uno esce a 300 all'ora dal tunnel e magari picchia contro il guard rail. Se capita, uno non ha molta speranza di farcela. Ebbene, se si peggiora l'aerodinamica della vettura, la sicurezza aumenta perché così diminuisce la velocità». Allora, qualcuno osserva: c'è chi dice che voi siete pagati tanto anche per morire. «Non lo credo. Neanche per un criminale si ha un atteggiamento così». Ma tu ti senti pagato per morire? «Noi siamo personaggi per la gente, e ce ne rendiamo conto. Siamo pagati per fare spettacolo ad alto rischio. Però è giusto che ci sia un regolamento che tuteli anche la nostra vita. Attorno al nostro mondo c'è un'organizzazione enorme, e tutto costa. Costano le macchine che cammina¬ no e devono essere pagati bene i piloti per farle camminare meglio. Ma non per morire. Questo no». Poi, quando gli altri insistono, lui quasi si adombra: «Ma chi l'ha detto che siamo pagati per morire?». Briatore, dicono (in verità era stato più cauto: «I piloti sono pagati anche per correre dei rischi, è la legge del mercato»). E Alesi: «Chi è andato a casa di Briatore?». Nessuno. «Allora, andate e vedrete che reggia. Questa è la mia risposta». Come a dire: anche lui guadagna e non corre i nostri rischi. Fuori, in mezzo a questo mondo, Wendlinger è già un ricordo. Sì, c'è Lehto che cerca di far capire ai suoi che «più di così» non ce la fa. Stessa macchina, Schumacher ha il primo tempo e lui il 17°: ma, «fra l'incidente che ho avuto all'inizio del campionato e quello che è successo in questi giorni, io non ci riesco ad andare più forte, non me la sento». E c'è Clay Regazzoni che critica la commissione piloti: «Quelli sono senza palle, e Lauda è una figura ibrida. Non dico uno sciopero, ma dovevano chiedere almeno due cose, a cominciare da qui, a Montecarlo». Sì, a leggere i tempi c'è ancora qualcuno che si ferma a riflettere: questi bolidi sono razzi lanciati fra le curve. Ma alla fine a Montecarlo ha vinto la legge dello spettacolo. Anche quella di Flavio Briatore, che piaccia o no. Roba di cuore. Non resta che spiegarlo così, come fa Berger, camminando inseguito dalla tv austriaca: «Questo è il mio amore. Non posso smettere di correre, anche se posso aver paura, anche se la provo. Non è neppure tanta. E' la stessa paura che senti quando ti metti in macchina per buttarti nel traffico, la stessa che proviamo in milioni di automobilisti. E qui, nella FI, il fascino di spingere le macchine al limite è troppo grande. Non ci possiamo fermare». E' il cuore che parla. Peccato. Non lo ferma neanche la morte. Pierangelo Sapegno

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