Castelvolturno metà degli abitanti è nera

Sono seimila, vivono in una bidonville. Ma il confine con gli «italiani» è netto e invalicabile Sono seimila, vivono in una bidonville. Ma il confine con gli «italiani» è netto e invalicabile Castelvolturno, mela degli abitanti è nera «Siamoprovincia d'Africa» CASTELVOLTURNO DAL NOSTRO INVIATO L'Alfa 33 imbocca via delle Dune, una strada sterrala che si perde diritta come la lama di una spada nella campagna casertana. Ti aspetteresti scenari agresti, con i contadini al lavoro nei campi coltivati. Invece ti trovi proiettato improvvisamente in un mondo diverso, un lembo di terra trapiantato qui da un altro continente. Dai un'occhiata e ti accorgi di essere arrivato in Africa, dove migliaia di uomini con la pelle scura non fanno che spiarti con sguardi inquieti. Vengono dal Bourkina Faso, dalla Costa d'Avorio, dal Bangladesh, dalla Tanzania, dal Ghana, dalla Nigeria. Sono tutti lì, ammassati come bestie in un villaggio di lamiera, un'immensa, putrida bidonville cresciuta attorno ai ruderi di due masserie. L'acqua corrente manca, o meglio non è mai arrivata, come l'energia elettrica. Jean-Francois, un nero sdentato con la pelle devastata da un eritema, indica con un gesto della mano la campagna che si estende a perdita d'occhio e spiega: «Quella è la nostra latrina, ci accovacciamo fra i cespugli. Di notte no: usiamo questa», spiega mostrando una bottiglia di plastica. Poco distante, ai lati di un rettangolo di lamiera che protegge l'ingresso di una baracca, le mosche si danno da fare sulle carcasse di due capretti presi chissà dove e macellati chissà quando. Castelvolturno, Comune d'Italia, è anche questo. E' anche un pezzo di poverissima, miserabile Africa. Secondo stime che risalgono all'anno scorso i neri che vivono qui sono circa seimila, quasi il quaranta per cento della popolazione locale. E il numero aumenta con l'arrivo dell'estate, quando è il momento della raccolta dei pomodori e della frutta. La stragrande maggioranza è sprovvista di permesso di soggiorno e trova rifugio qui, nella bidonville di via delle Dune che tutti, bianchi e nerì, chiamano con sconcertante naturalezza «il ghetto». La definisce così anche il capo del commissariato di polizia, Massimo Mastroianni, un uomo alto e magro con la faccia da ragazzo. Nato a Caserta trentadue anni fa, laurea in legge e moglie lombarda, è approdato a Castelvolturno nel '91. Certo non immaginava che un giorno si sarebbe trovato a fare il poliziotto in Italia e in Africa senza mai muoversi dalla provincia di Caserta. Non credeva certo di dover vestire a volte i panni di un ambasciatore italiano in terra straniera, e di dover intervenire di tanto in tanto nelle liti fra le comunità africane per ricordare con santa pazienza ai suoi interlocutori: «Io qui rappresento la legge italiana». E ora, seduto al volante della sua Alfa 33, racconta come lui e i suoi quaranta agenti tengono a bada una polveriera che si estende per oltre venti chilometri lungo una delle coste più inquinate e cementificate d'Italia. «Negli Anni Settanta - spiega Castelvolturno viveva di turismo. Poi c'è stato il terremoto, e con il sisma sono arrivati l'abusivismo edilizio, i senzatetto da Napoli, i camorristi da Caserta, gli immigrati dall'Africa. Il paese è cresciuto in maniera folle, fino a perdere completamente la sua identità. Oggi è un agglomerato di villaggi indipendenti l'uno dall'altro, attraversati da un reticolo di stradine senza nome in cui neanche il postino riesce a districarsi. Le sembrerà strano, ma la nostra difficoltà maggiore è sapere chi vive nella nostra zona. Se qualcuno ha un motivo per nascondersi, questo è il posto ideale». Il commissario Mastroianni non deve fare i conti solo con la camorra, ma anche con un'organizzazione criminale che i giornali hanno battezzato «mafia nera». «Io non devo, non posso permettermi il lusso di analizzare i motivi sociali e culturali del fenomeno. So solo che, purtroppo, gli africani che commettono reati sono molti. E che reati...». Gli archivi del commissariato traboccano di fascicoli con su scritti a penna nomi esotici. Come quello di Tony Honisha, un nigeriano che si faceva chiamare Bill Smith. Mastroianni indagò su di lui, e scoprì che Tony era il capo di una banda che im- portava dal suo Paese un paio di chilogrammi di cocaina al mese. «Intercettammo le sue telefonate: lui e i suoi parlavano tranquillamente di partite di droga da fare arrivare al più presto in Italia. Come? Nello stomaco degli immigrati, che ingoiavano le dosi sigillate in ovuli di plastica. Guardi questa radiografia: sono le viscere di un africano bloccato all'aeroporto. Le forme ovoidali più chiare sono contenitori di droga. Non sto esagerando: quell'uomo aveva in corpo circa novecento grammi di polvere bianca. Ci sono stati dei mor- ti nella guerra fra bianchi e neri per il controllo del traffico degli stupefacenti. Tanti morti. Nel '90 ce ne abbiamo avuti cinque in una sola volta, quattro tanzaniani e un pregiudicato di Castelvolturno». Poi c'è la prostituzione. «Fino a qualche mese fa le strade pullulavano di nigeriane vittime del racket - racconta Mastroianni -. Il meccanismo era semplice. La maitresse, chiamiamola così, accoglieva le sue connazionali che venivano in Italia con la promessa di un lavoro, poi sequestrava loro il passaporto e le ricattava: vai a battere o ti faccio morire di fame. E quelle poveracce, naturalmente, andavano a battere. Ricevevano ogni mattina un certo numero di preservativi, e la sera dovevano consegnare 30 mila lire per ogni profilattico che mancava». Da qualche tempo le lucciole nere non si vedono più per le strade di Castelvolturno. Un po' per la sorveglianza della polizia, ma soprattutto in seguito ad una catena di misteriose aggressioni avvenute l'anno scorso, quando otto prostitute sono finite in ospedale con le gambe martoriate da decine di pallini da caccia. Diedero tutte la stessa versione: a sparare con il fucile erano stati degli uomini da un'auto in corsa. Si disse allora che i responsabili del tiro al bersaglio erano semplici cittadini di Castelvolturno che avevano formato ronde armate. Un segnale allarmante, quello, che lasciò intravedere barlumi sinistri di un razzismo inconfessato. Razzismo: una parola che nessuno vuol sentire in paese. Neanche il co" 'missario: «In quasi quattro anni d: lavoro a Castelvolturno non mi è mai capitato un solo caso di intolleranza razziale». Eppure fu proprio lui che, con i suoi agenti, salvò una bambina dalla pelle nera intrappolata in un appartamento incendiato da chi voleva cacciare gli africani dalla zona. Qui il confine fra Italia e Africa è marcatissimo, invalicabile. La convivenza è tutt'altro che facile, l'integrazione è un termine dal significato pressoché sconosciuto. Fra bianchi e neri c'è un rapporto esclusivamente mercantile: gli uni affittano agli altri le case umide e cadenti costruite abusivamente in riva al mare, i neri pagano come e quando possono con il guadagno della raccolta dei pomodori e della frutta. «La gente di Castelvolturno non è razzista - spiega Mastroianni -. E' terrorizzata da quella parte di africani che traffica in droga e sfrutta la prostituzione». Ma come spiegare la comparsa, nell'estate del '93, di centinaia di manifesti sui muri del paese? Proclami rigorosamente anonimi dal titolo esplicito: «Via gli extracomunitari da Castelvolturno». Fulvio Mitene Il commissario di polizia: non esiste razzismo Con gli immigrati c'è solo un rapporto mercantile Scene di vita quotidiana dei nordafricani a Castelvolturno

Persone citate: Bill Smith, Francois, Fulvio Mitene, Mastroianni, Tony Honisha