BEAT GENERATION la strada dei ribelli di Vittorio Zucconi

50 ANNI DOPO. Nel 1944 il fatidico incontro Kerouac-Ginsberg che segnò un'epoca 50 ANNI DOPO. Nel 1944 il fatidico incontro Kerouac-Ginsberg che segnò un'epoca BEAT GENERATION La strada dei ribelli WASHINGTON DAL NOSTRO INVIATO Forse cominciò tutto alla fine del secalo scorso, nelle notti di temporali estivi nel New England quando un uomo vestito di nero, il volto stravolto dalla collera, usciva sul porticato di casa agitando una lampada a kerosene e gridando al cielo «dai, forza, avanti, se sei davvero tanto più forte di me colpiscimi con uno dei tuoi stramaledetti fulmini e spegni la mia lanterna, fammi vedere chi sei, Dio». Ma il Signore Iddio dell'America aveva altro da fare che occuparsi di quel pazzo che Lo sfidava durante i temporali e che restava a reggere la lanterna sotto la pioggia, mentre la moglie e i figli, nascosti sotto il tavolo della cucina, mormoravano per compensare il sacrilegio di quel blasfemo. Il Dio dei fulmini non diede mai a Jean Baptiste Kerouac la soddisfazione di spegnergli la lanterna. La cronologia, l'albo delle memorie contemporanee collocano al 1944 - mezzo secolo fa - l'incontro a Times Square, nella New York del penultimo anno di una guerra che stava inghiottendo una generazione di giovani americani fra Cassino e Iwo Jima, l'incontro di Alien Ginsberg con Jack Kerouac, il nipote dell'atee con la lanterna. Ma la contabilità anagrafica, seppur rassicurante per la nostra ansia di archivisti del passato, non può fare giustizia a questi uomini, a questi poeti, a questi mirabili pazzi che hanno osato agitare la lanterna del loro talento e della loro rabbia per sfidare gli dei del potere e dell'establishment. La loro piccola luce blasfema ha attraversato la consciousness, la coscienza del nostro tempo con la furia di quei fulmini sempre invocati e mai caduti sul nonno di Kerouac. Nulla offenderebbe di più lo stesso Kerouac, Gregory Corso, Kenneth Rexroth, Gary Snyder, Lawrence Ferlinghetti, Neal Cassady e il «Grande Superstite», Alien Ginsberg, di ogni tentativo di rinchiudere nella gabbietta di una storiografia letteraria il vulcano, il fiume in piena, l'oceano, il tutto e il nulla della loro «Beat Generation». Ma noi che frequentiamo acque più tranquille e viviamo all'ombra di vulcani ormai spenti, possiamo dire che sì, il movimento poetico, letterario, comportamentistico, tossicodipendente, omosessual-orgiastico, ribelle (chiamatelo come vi pare, va bene tutto) ha compiuto quest'anno i suoi 50 anni. Non più ribelle e non più eretico, il Beat con i suoi ormai canuti profeti, i Beatniks, è divenuto profondamente, incurabilmente mainstream, parte della corrente principale del fiume americano. Parte integrante - parola che li avrebbe tatti urlare di orrore - della cultura ufficiale americana, come Mickey Mouse, Hollywood e il Pentagono. Il tempo, e l'immenso stomaco dell'America, hanno digerito an¬ che loro. Kerouac e Cassady sono morti da anni. Ferlinghetti, l'editore-poeta di San Francisco che accolse nella sua libreria «City Lights» la prima lettura dell'Urto di Ginsberg, è un anziano e rispettabile signore in una California che da tempo non si scandalizza più di niente. Ginsberg ha finito per andare a insegnare letteratura inglese in un rispettabile college di New York, al calduccio nel grembo dell'Accademia ufficiale. E Carolyn Cassady, la «vedova» di Neal, il più bello, il più fascinoso dei Beatniks, scrive memorie per confessare che tutto quel «libero amore», quel «genio e sregolatezza» esistenziale di 30 anni or sono le ha lasciato il rimpianto, e la voglia mai soddisfatta, di un borghesissimo matrimonio con bambini, al fianco del suo uomo. Ma ora sarebbe troppo ovvio, troppo banale, compiacersi della resa dei ribelli e dell'ennesima, amara constatazione che anche in arte, come in politica, si nasce in cendiari solo per morire pompieri. Sarebbe, soprattutto, ingiusto, perché dietro tutte le normalizzazioni e le artriti, dietro tutti i rimpianti e la (spesso) mediocre poesia, sta la verità di un movimento forse di pazzi, forse di imbonitori, forse di modesti letterati, ma che ha davvero messo il suo sigillo sulla cultura del dopoguerra. Ed è forse cambiato meno di quanto non siamo cambiati noi tutti, i «non beat», e i «perbene». Guardiamoci in giro. Le loro provocazioni sono divenute luoghi comuni, materia per campagne pubblicitarie: nulla di quel che fecero i Beat arrivò mai ai vertici, o agli abissi, di certi manifesti Benetton. Il disperato, divorante bisogno di confessarsi, di «urlare» al mondo le piccole verità della propria esistenza era oggetto di denunce alla magistra¬ tura 39 anni or sono, quando Ginsberg declamò il suo poema da Ferlinghetti a San Francisco e oggi è materia prima stucchevole di ogni talk show televisivo per casalinghe frustrate. Lo scandalo dei panni laceri, deliberatamente strappati, delle giacche «destrutturate» e pendule sulle spalle è da tempo moda per ragazzine e ra- gazzini «yuppies» nei colleges più raffinati. L'uso della droga non è purtroppo più uno schiaffo alle convenzioni borghesi, una sfida rischiosa e privata, ma una piaga collettiva che investe operai nelle fabbriche quanto miliardari dello sport o avvocati di grido. E il «denim», come allora si chiamavano i calzoni di tela blu francese (tela «de Nimes») è diventato il «Jean» (la tela di «Genoa») indossato universalmente, dalla Piazza della Pace Celeste a Pechino fino ai seminari cattolici, passando per la Piazza Rossa. La «Beat Generation» che si era chiamata out, fuori, ha preso il potere alla Casa Bianca, con due personaggi come Bill Clinton e Hillary Rodham, palesemente cresciuti e concimati negli umori di quel tempo. La fuga on the road, via lungo le strade alla ricerca di se stessi, celebrata da Kerouac è ormai, grazie ai biglietti d'aereo in classe turistica e all'universalità dell'auto, un pellegrinaggio sognato e fatto da tutti. La dolorosa, insopprimibile voglia di liberazione sessuale, e soprattutto omosessuale, presente in Ginsberg e in Kerouac è esplosa nell'accettazione - legale e pratica, se non ancora morale - dei rapporti di coppia «aperta», della sperimentazione amorosa, e infine dell'essere gay come diritto naturale. «Spezzate i catenacci, svitate i lucchetti, sfilate le porte dalle cerniere», gridavano i beatniks per distruggere i simboli, e i riti, del «privatismo repressivo borghese». Sarà solo una coincidenza se, qualche anno più tardi, un certo Marco Pannella decise di vivere in un appartamento romano con la porta sempre aperta a drogati, diversi, vagabondi senza collare? Chi andasse oggi a cercare i re- duci e i rottami del primo movimento Beat a San Francisco, troverebbe l'orrore di autobus con l'aria condizionata che vagolano per North Beach, la Little Italy, dove i primi beatniks si ritrovavano per parlare di «arte amore luna merda donne cani uomini sogni puzze vino drag" e cosamangiamooggi...», come scrisse lo stesso Kerouac prima di morire. E ormai non c'è più nessuno. Ma il vero monumento al Beat, il vero museo siamo noi, uomini e donne imbevuti di ribellioni senza vere cause, di drammi senza vere tragedie, di improvvisi fastidi e altrettanto subitanee rese, noi che non ci rassegneremo mai a uscire dall'adolescenza, anche fra i disturbi alla prostata e le vampate della menopausa. Perché alla fine, letta 50 anni dopo, questa sembra l'essenza di quella storia e di quel gruppo di uomini che hanno bruciato se stessi e sparso le proprie ceneri in ogni angolo dello spirito del tempo, dagli abiti che portiamo fino ai dissidenti sovietici che negli Anni 60 e 70 aspettavano i passi del Kgb sul pianerottolo - come mi raccontò Vasilj Aksionov, lo scrittore dell'Ustione - declamando, sognando e masticando i beatniks americani. L'essenza è la continua, impenitente celebrazione di un'adolescenza che non vuole tramontare e ha oggi, grazie proprio a loro, il diritto di sopravvivere alla vecchiaia, fino alla morte. «Noi siamo la Beat generation», proclamò Kerouac dopo avere sentito un barbone, un randagio sui marciapiedi di Times Square a Manhattan, un tale Hunke di Chicago dire sconsolato nell'estate del '44, «Ragazzi, noi siamo proprio la generazione beat». Beat vuol dire tutto e nulla, vuol dire ritmo, battuta, sconfitta, ribellione, disperazione e arroganza. «Parola nuova di un linguaggio nuovo, gergo di negri e parola perfetta ed economica per dire tutto di noi e chi non capiva non poteva capire perché non apparteneva e la sua mente era chiusa e perduta», spiegò lo stesso Kerouac alla fine degli Anni 50, nella sua prosa torrenziale e dilagante. E se oggi tutto questo sembra dolcemente archeologico, tristemente passe, rallegriamoci noi figli della Generation X, noi reduci del beat. Il movimento è finito perché il movimento ha vinto: se Ginsberg fu cacciato dalla polizia di Praga quando nel '67 andò in Cecoslovacchia a predicare la primavera, l'inverno dietro di lui è finito. Se fece scandalo la sua conversione di ebreo newyorkese al buddismo, oggi è normale che persino un attaccante della Juventus e della Nazionale si proclami buddista. Grazie a quell'incontro del 1944 a Times Square, tutti abbiamo acquistato il diritto di restare per sempre immaturi. Almeno fino a quando il fulmine spegnerà anche la nostra lanterna. Vittorio Zucconi UMERO 12 7 19 GIOVEDÌ 12 MAGGIO 1994 LA STAMPA 50 ANNI DOPO. Nel 1944 il fatidico incontro Kerouac-Ginsberg che segnò un'epoca