ITALIANI strana gente

In un anno tormentato, il nostro cinema è a Cannes con ben sei film In un anno tormentato, il nostro cinema è a Cannes con ben sei film ITALIANI strana gente ROMA. In uno degli anni più tormentati della storia del nostro cinema il Festival di Cannes (stasera gala d'apertura, da domani il concorso) ospita sei film firmati da autori italiani. Non è un record visto che nel 1990 parteciparono alla manifestazione 7 titoli italiani (nel '91 quattro, nel '92 due e nel '93 cinque). Ma è certamente una contraddizione interessante: un cinema in forte crisi esprime comunque sei opere giudicate degne di partecipare a un confronto internazionale importante come quello di Cannes. Che cosa succede? Il Festival è come una vetrina luccicante di suggestioni che alle spalle non ha un vero negozio? I film invitati sono il segno di una nascente, grande ripresa o confermano solo la tesi secondo cui, in assenza di una vera industria cinematografica, sono sempre e solo gli autori la forza propulsiva del cinema italiano? «Cercherei di non esagerare col pessimismo e con la negatività - esorta l'indaffaratissimo direttore della Mostra del cinema di Venezia Gillo Pontecorvo - . Tutte le cinematografie hanno alti e bassi; noi abbiamo vissuto degli anni gravi, ma ora c'è qualche segno di ripresa: gli autori che vanno a Cannes dimostrano che il momento difficile sta passando. Quello che adesso è importante superare è il rifiuto verso il cinema italiano che, non completamente a torto, si è diffuso tra il pubblico negli ultimi tempi. Bisogna che gli spettatori tornino a scegliere i nostri film, che i successi sporadici di alcuni registi diventino sempre più fitti. In questo senso Cannes è molto importante e bisogna esprimere gratitudine ai responsabili del Festival che hanno capito e anticipato questa nostra ripresa. Sono appena tornato da Los Angeles dove, nel gotha del cinema americano, la nostra produzione è sempre seguita con grande attenzione: tutti quelli che ho incontrato mi hanno detto che la nostra forte partecipazione al Festival rappresenta un ottimo segnale di rinascita». Meno fiducioso, ma come sempre lucido e graffiarne, Marco Ferreri, da Parigi, offre un ben diverso punto di vista: «Andare a Cannes, come negli altri festival, non significa niente: ai nostri film vanno premi e riconoscimenti, ma poi in Italia nessuno si preoccupa di distribuirli né di promuoverli. Il nostro è il Paese europeo in assoluto più colonizzato dal cinema americano ed è risibile che, mentre tutti gli altri si preoccupano di proteggere al meglio le pellicole nazionali, da noi viene approvata una legge che non s'interessa affatto di tutto questo e che è, in sostanza, un unico grande difetto». Ferreri denuncia lo scomparire della figura del produttore («Non tirano fuori i soldi, non hanno contatti, non viaggiano, non conoscono neanche una lingua») e le conseguenze nefaste «del fare cinema sempre con la censura della tv sulla testa». Dice l'autore de «La grande abbuffata»: «A parte le operazioni americane che sono sempre vecchie, può darsi che il cinema abbia un futuro d'elite. Di certo la "ricerca" in questo Qui accanto Marco Ferreri Sotto a sinistra Gillo Pontecorvo liani a Cannes descrivano in buona parte realtà e problemi sganciati dall'ambito strettamente nazionale è per Amelio un buon segnale: «Forse stiamo allargando i nostri orizzonti, magari tutti i film italiani fossero italiani in questo modo, con questa ricchezza, con questa varietà!». Pragmatico e disincantato il punto di vista di Marco Risi, regista della nuova generazione che al Festival partecipa in veste di produttore (con Maurizio Tedesco del film di Aurelio Grimaldi «Le buttane»): «Il Festival aiuta anche se poi i film, una volta nelle sale, non sono sempre successi dal punto di vista economico. Certo, c'è il prestigio e c'è che un film invitato a Cannes riesce ad avere risalto sui giornali e in tv almeno per qualche giorno. Poi c'è il vantaggio finanziario: Cannes è soprattutto un mercato e quindi offre molte possibilità di vendite all'estero». Il talento degli autori, dice ancora Risi, ha sempre tenuto in vita il nostro cinema ed è sicuramente un punto a fa- vore nella diffusione di un'opera: «Registi come Moretti, Tornatore, Archibugi provocano attesa e curiosità e richiamano comunque una certa fetta di pubblico. Poi ci sono i "film da Festival", quelli che difficilmente riescono a sopravvivere nelle sale. Bellocchio, per esempio, è uno che fa cinema contro il pubblico o perlomeno non si preoccupa del pubblico, fa i film che piacciono a lui». Sono altre, infatti, secondo Marco Bellocchio (che apre «Un certain regard» con «Il sogno della farfalla»), le cose di cui gli autori della nuova leva dovrebbero preoccuparsi: «Il cinema da noi è ancora troppo "contenutista", inteso come romanzo illustrato, privo di lavoro di ricerca sull'immagine. Oggi tutti vogliono riscoprire il sociale. Ma non basta. E' necessario anche ricercare linguaggi l'aggressività condensatasi sul protagonista, li porta a una riunione famigliare nella quale si consuma il distacco decisivo. I riferimenti autobiografici della ribellione alle convenzioni sociali e artistiche, riportabili sia a Bellocchio sia a Fagioli, sono moltissimi: e se nel primo film del regista ventiseienne, «I pugni in tasca», il distacco-salvezza dalla famiglia avveniva attraverso l'eliminazione della madre, l'autore a cinquantacinque anni vede quella separazione compiersi in modi non violenti e non traumatici (la finale immobilità fetale della madre esprime la morte del ruolo materno, non della persona). Gli attori corretti (Thierry Blanc, Simona Cavallari, Bibi Andersson, Roberto Herlitzka, Henry Arnold, Nathalie Boutefeu) quasi contano meno