Guida al luogo dell'orribile

Cassese e la tortura in Europa JL Cassese e la tortura in Europa JL Guida al luogo dell'orribile pJL IlL titolo e il sottotitolo di questo libro di Antonio Gassose sono fortemente evocativi. Umano-disumano. —I Commissariati e prigioni nell'Europa di oggi (Laterza): a leggerle, quelle parole, sembra di partecipare di un'altra epoca e di un'altra dimensione culturale. E' come scorrere documenti e pamphlet, scritti e libelli dell'«epoca dei lumi», quando venivano formulati - tra le più acerrime resistenze - i fondamenti dell'illuminismo giuridico. E giuristi epbi/osophes, politici e giornalisti si affrontavano, con asprezza e passione, per elaborare e comparare teorie della società e dello Stato e, così, porre le basi del diritto moderno. E questo Umanodisumano di Cassese è davvero il titolo di un manifesto illuminista e, insieme, il resoconto di un'ispezione - di una impietosa radiografia nelle viscere profonde, e sporche, degli Stati europei. Umano-disumano richiama, appunto, la fiducia disperata e tuttavia caparbia - nell'uomo: fiducia nell'uomo dopo aver visto di cosa l'uomo sia capace. Fiducia nell'uomo dopo averne conosciuto tutta intera l'abiezione (Cassese: «Inhumani nihil a me alienum puto, si potrebbe dire, alterando leggermente la massima di Terenzio»). Il catalogo dell'inumano esposto in questo libro è, effettivamente, impressionante: tanto più perché non si parla innanzitutto - attenzione - della ferocia degli uomini, bensì della ferocia degli Stati. Antonio Cassese, docente di diritto internazionale, ha guidato, per circa quattro anni, un gruppo di ispettori che - su mandato di 23 governi del Consiglio d'Europa - ha «visitato i carcerati»: nelle prigioni e nelle caserme, nei campi profughi e nei commissariati, negli ospedali psichiatrici e ovunque qualcuno venisse privato della libertà su ordine, giusto o ingiusto, di un'autorità statale. Questi luoghi di detenzione non appartenevano (non appartengono) alle periferie della civiltà democratica o agli angoli bui e irraggiungibili dei regimi totalitari, fascisti o comunisti: bensì appartenevano (appartengono) ai Paesi dell'Europa occidentale, più Cipro e la Turchia. E' qui che gli ispettori del Consiglio d'Europa si sono calati, trovando spazi orribili di sofferenza: celle e anfratti, sentine e ricettacoli, cantine e grotte, dove si praticava (e si pratica) la tortura. «Niente più ruote, corde nodose, cavalietti irti di aculei d'acciaio, apparecchiature complesse e macchinose - scrive Cassese -, la tortura si è fatta, per così dire, casalinga e dimessa»: «un uovo bollente sotto l'ascella del detenuto», «picchiare ripetutamente sul capo con un elenco telefonico», infilare «la testa del detenuto in un sacchetto di plastica, di quelli che si usano per l'immondezza» e stringere «il sacchetto intorno alla gola». Accanto a questi, altri metodi, assai meno «casalinghi» e meno «dimessi»: bastoni e manganelli anche in Italia, seppure «eccezionalmente», secondo l'autore - e jt] PARIGI NA serata mondana a Mosca nell'ottobre del 1914. Sarà un ricevimensi Ito molto d'avanguardia, molto «secolo d'argento», dove regna la bohème più arrischiata e nulla è lasciato alla convenzione. Marina Cvetaeva, la poetessa, a 22 anni, è a casa con la piccola figlia Ariadna. Il marito Sergej Efron è lontano, nelle retrovie del fronte, impegnato come infermiere. Marina si prepara con cura. Per recarsi al ricevimento indossa un abito impegnativo, da sera, tutto a volant, volutamente démodé, di tre stagioni prima. E gli ospiti l'accolgono festosi per questo travestimento da gran dama. C'è voglia di divertirsi, di dimenticare le prime orribili notizie che arrivano dal fronte: soprattutto non parlare di guerra, è la parola d'ordine. E l'eccitazione che aleggia su quel mondo si fa parossismo quando sulla porta della sala si affaccia un'altra donna. Un mormorio trascorre di bocca in bocca: «La Parnok, ecco la Parnok». Sofia Parnok, la bella Saffo moscovita, la poetessa divorziata che scorrazza per la città su una macchina decapottabile con accanto una donna, non sempre la stessa, che abbraccia e bacia a suo piacere; colei alla quale le madri non presenterebbero la figlia adolescente. Insomma una «donna dannata». Marina l'aveva vista un giorno sulla sua carrozza chiamare con un gesto il fioraio, comprare tutti i fiori e spargerli sulle ginocchia della bella che sedeva accanto a lei in posa ieratica. Sofia entra e Marina si alza all'improvviso, senza un perché. Come la Tatiana di Pushkin all'ingresso di Eugenio Onegin. L'amore è già nato e diventa subito poesia: «Avete estratto una sigaretta / Vi ho teso un fiammifero. / Che cosa avrei fatto / Non lo so / Se mi aveste fissato negli occhi. / Mi ricordo / Al di sopra di un vaso blu / I nostri bicchieri si sono toccati. / "Oh, siate il mio Oreste!" / E vi ho teso un fiore / ridendo... del mio scherzo? / Dalla borsetta di velluto nero / con un gesto lento avete estratto il vostro fazzoletto». Così Sofia-Oreste, la figura protettrice, e Marina-Pilade o Marina-Elettra, la protetta, si incontrano. Prende vita una passione travolgente e molto liberty fra due poetesse. E' destinata a durare poco più di un anno, durante il quale Marina dimentica figlia e marito per annullarsi fra le braccia della bella «femme fatale». E' una passione nota. Ne aveva per esempio parlato già Simon Karlinsky nella sua bella biografia della Cvetaeva pubblicata in Italia da Guida. Ma ora, molto romanzata, generosa di particolari, quella storia risalta a tutto tondo dalle pagine di una nuova biografia della poetessa russa uscita in Francia da Belfond e redatta da Dominique Desanti; titolo: Le roman de Marina. Un amore femminile durato quasi due anni nella vita di una poetessa non è poco . E non fu il solo. Per altri uomini ed altre donne Marina nutrì passioni brucianti, che spesso ardevano al solo fuoco della poesia o dello scambio epistolare. Con Pasternak per esempio. Tradimenti più che altro intellettuali, spirituali: «Posso amare numerosi shock elettrici e supplizi veri e propri. Qui e altrove, nel libro, ciò che colpisce è la scrittura di Cassese: il giurista cita occasionalmente i classici del pensiero garantista e liberale e gli autori che ama, ma questo non è un saggio sui diritti violati: è davvero una «guida dei posti più orribili d'Europa». Dunque, vi si parla di corde e acqua, feci e sangue, muco e fango, pietre e bastoni, buio e fetore; e lo si fa senza metafore e immagini letterarie, ma con lo stile, sobrio fino alla monotonia, del cronista disincantato, che - se deve descrivere una «crocifissione» - non ha poi molte alternative linguistiche: «Si legano i polsi del detenuto dietro la schiena, e lo si appende, sempre per i polsi, ad una corda fissata a un gancio attaccato al muro: basta tenerlo così per una decina di minuti, per provocare dolori atroci alle scapole, agli omeri e ai polsi». Semplice, no? Ma il libro insegna anche che esistono - e per fortuna «esperti di sistemi penitenziari», capaci di identificare un «tipico odore umano»: «un lieve tanfo, di cui il corpo di una persona rinchiusa per ventiquattro e più ore impregna una cella di dimensioni ridotte, tanfo che ristagna per uno o due giorni (soprattutto quando non c'è una buona e costante ventilazione)». Il che permette di scoprire che quella è proprio una cella, anche quando i guardiani negano che lo sia. Ecco, questo libro trasuda, secerne, emette un «tipico odore umano»: è un odore non gradevole (il dolore non è bello a vedersi e a sentirsi), talvolta ributtante, spesso intollerabile. Ma che va ricordato, conservato, tenuto ben presente, si condivida o no la risposta data da Cassese alla domanda che il libro pone e impone: perché? «La mia risposta - scrive l'autore - è sommaria e malsicura. La mia risposta è che il senso di umanità, così come i diritti umani, non sono innati (...). Se è così, basta poco a far smarrire o a ottundere quel senso di umanità che è pur tuttavia presente almeno nei grandi principi della cultura europea. Basta poco: la pressione di condizioni di vita insoddisfacenti, la mancanza di modelli sociali e culturali di riferimento (...), l'adesione - magari inconsapevole - a valori e ideologie irrazionali (il razzismo, l'odio per gli stranieri, il nazionalismo, e tante altre): tutto ciò può facilmente indurre un medico, un poliziotto, un carceriere, un magistrato, a praticare o tollerare trattamenti disumani e degradanti». E, allora, se ne può uscire? Non certo una volta per tutte: i valori di umanità costituiscono «un patrimonio da riconquistare» giorno per giorno, con la consapevolezza che non si tratta di conquiste irreversibili; e che, mentre una cella di tortura viene smantellata, un'altra viene allestita qualche chilometro (o qualche decina o qualche centinaio di chilometri) più in là. Luigi Monconi