Montecristo in provetta

il caso. Completato e riscritto il romanzo: ma non è il solito «seguito» il caso. Completato e riscritto il romanzo: ma non è il solito «seguito» Montecristo in provetta Dumas «clonato» divide la Francia fìlfl PARIGI 1.1 j I misura di una storia ben Sri I raccontata, che lascia alI i la fine nel lettore il desi- 1 MÀ Iderio di saperne ancora di più. Dove sarà finito quel personaggio, avrà poi funzionato tra quei due, il cattivo lo sarà rimasto, la casa esisterà sempre? E le parti del romanzo rimaste in ombra: se sono sottaciute con destrezza, chi non è curioso di sapere anche di quelle? Di solito ci si accontenta di fantasticare un po', si fa capolino al di là delle tante porte socchiuse, ma le si lascia poi così come sono. Tradizionalmente le regole del gioco non consentono altro, è lo scrittore a dettarle e a noi è sempre piaciuto rispettarle. Non così è parso a Frangois Taillandier, romanziere francese già sperimentato che, per celebrare a modo suo i 150 anni del Conte di Montecristo, ha pensato - nell'era dell'Interattivo - di scriverne un seguito, e un'integrazione. Ha immaginato che a Edmond Dantòs, morto secondo lui nel 1858, fosse venuto l'uzzolo qualche tempo prima, nel 1855, di dettare le proprie memorie: da un lato per liberarsi del peso di un rimorso (ed ecco il seguito al romanzo di Dumas), dall'altro per rivivere, raccontandole, le avventurose vicende intercorse tra l'evasione dal carcere e la perpetrazione della vendetta (questa l'integrazione, riempimento di uno dei «buchi» lasciati da Dumas). Sono Les mémoires de Monte-Cristo, edizioni de Fallois, or ora giunte in libreria. E a chi risulta che Dantès le dettò? Al ben noto storico Alphonse de Beauchamp, autore di una fortunatissima Histoire de la Vendée. Taillandier non ha trascurato nessun dettaglio: Alphonse de Beauchamp morì, nella realtà, nel 1832. Ma adi birlo a raccogliere le memorie del Conte di Montecristo tredici anni dopo altro non è se non adeguarsi pienamente al meto- ■ 1 ■■■■■■■■■■■ ■■■■ 1 ■■■■■■ ■ ■ ■■■■ v .vv.v .:■ Anche in un chicco c'è la vita Se mi è concesso sarei lieto di rispondere al sig. Giovanni Rostagno che nel numero del 23 aprile de La Stampa esprimeva i propri dubbi riguardo all'etica vegetariana. E' certo: la vita permea l'intero universo, possiamo trovare manifestazioni di sensibilità e di intelligenza già nel minerale. Tutto è energia e l'energia è vita organizzata. Ha ragione il signor Rostagno: se noi strappiamo una pianta, maciniamo un seme n addentiano un rapanello, creiamo sofferenza, in quanto in qualche modo violentiamo un'altra vita. L'elemento «violenza» pare sia parte integrante del ciclo vitale, ce lo insegnano le varie catene o meglio «reti alimentari» degli ecosistemi nei quali un circolo chiuso unisce prede e predatori. Dall'osservazione degli stessi si può dedurre che è sempre la vita a nutrire la vita, quindi anche il vegetarianesimo è una scelta che implica una percentuale di violenza. Io credo che mai si possano fare scelte assolutistiche e che mai si possa parlare di non-violenza se non in astratto. Spesso ci troviamo ad operare dovendo scegliere tra due mali, e solo allora la persona evoluta e sensibile si differenzierà dalle altre optando per il male minore. Questo vale anche per altri temi quali aborto, problema energetico, politica, ecc. Io ho scelto il vegetarianesimo in quanto mi è parso di operare la scelta meno violenta. Il chicco di grano, il rapanello e l'insalata non sono dotati di massa cerebrale e di organi evoluti quali cuore intestini e polmoni, la loro sostanza non è carne impregnata di sangue ed è innegabile che il loro aspetto è più appetibile dei muscoli, delle ossa e dei peli. Allo stesso modo io penso che nessun carnivoro dovendo scegliere tra carne animale e carne umana avrebbe dubbi nell'optare per un cibo che risulti nella scala evolutiva almeno un gradino al di sotto. Io credo nell'evoluzione della specie umana e credo che questa do di scrittura che era di Dumas: partire dalla Storia e farne però poi un uso di comodo («Un gancio cui appendere il romanzo», diceva lui). L'Edmond Dantès di Taillandier inizia pimpante il suo racconto. Riferisce di un periodo vagabondo e folle, spazia dai carbonari a Garibaldi, da Waterloo a Abd-el-Kader, dalla Grecia di Byron ai pari di LuigiFilippo. Evoca un'Italia piena di briganti, abati e calessi, e poi la Parigi dell'Opera e delle sartine - le «lorettes» - che ci vivevano intorno. Parla di Rossini e Daumier e poi di colpo del favoloso Amman e del Caucaso terribile. Gli incontri di Dantès, vivacemente coloriti, sono un canovaccio di cui il burattinaio Taillandier si serve per portare in lettere AL GIORNA

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