Ma non chiamatelo olocausto di Sergio Quinzio

polemica. Così si tradisce lo sterminio polemica. Così si tradisce lo sterminio Ma non chiamatelo olocausto ■] ON so chi sia quello sprovveduto che ha usato per la prima volta la parola olocausto per indicare il geno I cidio nazista di ebrei e zingari durante la seconda guerra mondiale. A quell'orrore si può dare il nome che si vuole, non se ne renderà mai il concetto. Anche padre Dante, quando - credo l'unica volta nel suo poema - parla di olocausto per significare l'offerta a Dio di tutto se stesso, lo fa con quella «favella ch'è una in tutti», cioè la favella eterna, il pensiero che non viene con parole, come bene intese Alessandro Momigliano. Di un olocausto ebraico si è così parlato con leggerezza per anni, finché ci si è accorti che la parola è fuorviarne, nel suo significato sacrificale ed espiatorio che nulla ha a che vedere con Auschwitz e dintorni, salvo che con essa si volesse sottintendere che chi ad Auschwitz è stato sacrificato lo fu per espiazione di quel supposto deicidio che ora perfino la Chiesa di Roma ha rinnegato. Io stesso l'ho talvolta usata, quella parola, seppure con riluttanza, facendola però precedere dal correttivo: cosiddetto. Ma da quando ho saputo che anche lo storico revisionista Coppellotti si esprime in quel modo per affermare che Auschwitz non è mai esistito, preferisco usare il semplice nome geografico di quella città, per sintetizzarne il funesto significato. D'altra parte, se si vuole che quella memoria non venga cancellata, per dovere verso chi ne è stato vittima, e come impegno salvifico nei confronti delle generazioni future, di Auschwitz si deve pur parlare. Ma come, se la parola di per sé è incapace di rendere il concetto? C'è chi ritiene che ad Auschwitz solo il silenzio si addica, e tutti sappiamo come il silenzio talvolta dica più delle parole. Ma col silenzio non si eterna la memoria. C'è anche chi ha creduto di affidarsi al video, della televisione o del cinematografo, ma con risultati inadeguati, e spesso fuorviami. Salvo in quei documentari girati al momento dell'entrata delle truppe alleate nei campi di sterminio, che hanno rivelato al mondo incredulo che ciò che sembrava impossibile era vero. Ma quegli spezzoni di film ora giacciono per lo più dimenticati in qualche cineteca, e un celebre regista per ricrearne la tenebrosa atmosfera per il film La lista di Schindler ha preferito ricorrere alla finzione scenica. E lo ha fatto con gusto americano, con quel finale, pur di intenso effetto emotivo, che lascia allo spettatore impreparato l'impressione, e forse la convinzione, che con un po' di fortuna da quell'inferno ci si potesse salvare. Un Auschwitz caramellato che può offuscare l'opera di quegli eletti, come Primo Levi, Giuliana Tedeschi e Liana Millu che all'Auschwitz vero hanno avuto la forza di sopravvivere, per raccontare... Altri, la quasi totalità dei perseguitati, compresi parenti miei, non ne hanno avuto la possibilità perché stroncati prima di essere in- canalati al macello. Come Abraham Lewin, il combattente del ghetto di Varsavia che tenne un diario ritrovato dopo la guerra tra le macerie di quel monumento dell'orrore e dell'eroismo, e le cui pagine - queste sì legittime e sacre - si interrompono bruscamente il 16 gennaio '43, con la frase presaga: «Nelle vie oggi si sta svolgendo una ulteriore azione...» (A. L., Una coppa di lacrime, Il Saggiatore, 1993). E come Anna Frank, il cui diario pure è stato portato sulla scena, ma con quel rigore etico e religioso che la sacertà della vicenda imponeva. C'è un altro aspetto del problema. Milioni di persone sono state trasportate per centinaia e centinaia di chilometri, e poi eliminate, in regioni a fitta concentrazione abitativa, e nessuno ha visto, nessuno ha saputo? In certi casi, come a Mauthausen, il campo di stermi- nio era vicino alla città, e i suoi abitanti cooperavano talvolta alle operazioni di morte. Di questa condizione, dei loro silenzi e della loro apatia, ha parlato sulla Stampa del 2 aprile Mirella Serri, recensendo il libro dell'americano Horwitz, All'ombra della morte (Marsilio). Solo dunque la testimonianza dei sopravvissuti e le documentazioni storiche avrebbero legittimità nella letteratura su Auschwitz? No, c'è un'eccezione: la poesia. La poesia, che come la musica raggiunge direttamente l'anima attraverso vie misteriose e pure, si serve anch'essa della parola per esprimersi. E se Auschwitz almeno per noi italiani fino ad ora non ha trovato il suo cantore ebreo, il suo Bialik di Nella città del massacro evocativo del pogrom di Kishinev del 1903 (Il Melangolo, 1992), è uscita in questi giorni l'opera di un non ebreo italiano che attraverso la poesia, questa crociana «prima operazione della mente umana», come ricorda il prefatore M. Graziano Parri, «perpetua la commozione, così da rendere viva la concitazione della verità». Ed è, la poesia, «una messa in scena interiore in cui si attua la sopravvivenza dopo la morte, e in cui si salva in perpetuo il canto che muore». Da Dante ai nostri giorni, ciò che non si può «significar per verba» si può dunque esprimere, oltreché col silenzio, solo con la musica e con la poesia, e chi non sia terrificato dall'argomento, dovrebbe leggere queste epiche trecento pagine di verità storiche su Auschwitz cantate, prima che il tempo e l'incoscienza dell'uomo le offuschino, da un non ebreo (Lorenzo AlbertineUi, I Lager, Giuntina, 1994). Sion Segre Amar E La tragedia di Auschwitz. Sotto, da sinistra: Sergio Quinzio e Erri De Luca

Luoghi citati: Varsavia