Polemica intervista con il grande direttore che venerdì inaugura il Lingotto con Mahler

Polemica intervista con il grande direttore che venerdì inaugura il Lingotto con Mahler Polemica intervista con il grande direttore che venerdì inaugura il Lingotto con Mahler N^l NORIMBERGA ON è vero che volto le spalle alla Scala, non ho mai "tradito" niente. Non 1 è vero che trascuro l'Italia - dice Claudio Abbado, sereno ma fermo -. Il concerto con il quale venerdì sera inauguro a Torino l'auditorium del Lingotto, dirigendo i Berliner Philharmoniker nella Nona sinfonia di Mahler, è semmai la prova che con il mio Paese, dove torno sempre volentieri e dove ho un bel rapporto attivo e creativo con Ferrara Musica, avvio un'altra collaborazione che durerà nel tempo e darà buoni frutti». Nel pieno di una trionfale tournée in Germania, il maestro reagisce con franchezza agli equivoci e alle polemiche esplose in questi giorni sui giornali. «La scorsa settimana - ricostruisce Abbado -, abbiamo presentato a Berlino i dischi dei cinque concerti per pianoforte e orchestra di Beethoven incisi con Maurizio Pollini e i Berliner per la Deutsche Grammophon. Alcuni giornalisti italiani mi hanno chiesto se, come previsto, l'anno prossimo avrei diretto il Fidelio alla Scala. Ho risposto di no. Mi hanno chiesto se nel '96 avrei portato Elektra con i Berliner. Ho risposto ancora "no". Perché? "Chiedetelo al sovrintendente", ho detto senza intenti polemici, ma per chiudere un discorso che ci allontanava dalla vera ragione dell'incontro: l'incisione beethoveniana, festa di un'intesa musicale e umana con Pollini che dura da venticinque anni. Così, in cerca di pettegolezzi, alcuni giornali hanno titolato che io "tradisco" la Scala, accampando motivazioni banali o volgari. La verità è un'altra. Il FideZio con la regia di Klaus Michael Griiber stava nascendo per Ferrara Musica. Era quindi logico che lì fosse rappresentato per la prima volta (non era una "prova di disponibilità" della Scala, come ha dichiarato il sovrintendente Carlo Fontana, accettare di ospitarlo in seconda battuta). Quando mi sono accorto che non c'erano tutti gli elementi capaci di garantire un ideale livello artistico, l'ho cancellato. Il presunto "no" a Milano nasceva dunque da un "no" a Ferrara». E per quanto riguarda «Elektra»? «La Scala non ha trovato lo sponsor per un progetto varato cinque o sei anni fa. Sono ragioni economiche che rispetto molto. Ma alla Scala c'è anche chi ha detto che in quel teatro i Berliner non possono suonare un'opera. Nessun musicista può affermare una cosa del genere». Chi lo avrebbe detto? «Il sovrintendente. Alla Scala avevo invitato i Wiener con Léonard Bernstein a eseguire proprio il Fidelio e i complessi di Monaco con Wolfgang Sawallisch. Ma i Berliner non suoneranno più in un teatro in cui si dice che non possono eseguire un'opera come lo faranno ancora a Berlino o a Salisburgo. Ricordate il loro Boris, che sogno?». Che cosa comporta? «Che alla Scala non ci sarà nemmeno il concerto sinfonico previsto per il '96. Lo faremo a Firenze». Quindi non ce l'ha con l'Italia? «Non ce l'ho con nessuno. Il mio Paese è l'Italia, che amo e dove opero volentieri. Lavoro con la Chamber Orchestra of Europe a Ferrara e ritornerò in tournée a riaprire il Teatro Massimo che risorge a Palermo, andrò a Firenze, a Perugia e in altre città in cui non abbiamo suonato l'ultima volta. Apro l'Auditorium del Lingotto, la bella "scatola sonora" di Renzo Piano, e presto ci ritornerò. Se non faccio più cose in patria è per mancanza di tempo: ci sono prima di tutto i Berliner, poi i concerti con i Wiener, il lavoro con la Mahler Jugend Orchestra, il Festival di Pasqua a Salisburgo. E voglio ancora leggere libri e studiare partiture, opere nuove. Sì, ho ancora molto da studiare e ho voglia di stare di più con i miei figli o di andar a trovare amici scrittori come Gesualdo Bufalino. Per questo ho deciso: dal 1997 dirigerò molto meno. Peccato per Milano: sta perdendo l'ultimo treno». E la Scala? «Penso volentieri alla Scala, che ha trasformato la mia vita. Provo un pensiero riconoscente ai suoi artisti, a alcuni uomini che l'hanno retta nel passato: Paolo Grassi, Massimo Bogianckino, Cesare Mazzonis; penso alle cose bellissime in tanti anni realizzate insieme». Per il futuro? «Non chiudo mai le porte. Anzi sono uno che le porte ha sempre cercato di aprirle. E' solo una questione di tempo». I Berliner sono ringiovaniti. La loro grande professionalità riesce a difendersi dalle continue tentazioni del mercato? «Sono una compagine molto democratica. Continuano a scegliere loro i nuovi strumentisti, votando dopo severe audizioni non davanti a una commissione, ma all'intera orchestra. Le selezioni avvengono liberamente. Si presentano i migliori musicisti di tutta l'Europa, c'è una scelta di altissimo livello. Sono entrati alcuni giovani grandi solisti». Dei suoi guadagni, delle sue decisioni «per soldi» che cosa dice? «L'ho già detto in un'intervista a Welt am Sonntag: il denaro nella mia vita non ha alcun ruolo dominante. Quand'ero studente non avevo nulla e ero un uomo felice. Per me non è cambiato niente. Certo guadagno più di prima. Ma ho posto un limite ai compensi dei Berliner, a cominciare dal mio. Nessuno deve poter dire che tra i Berliner ci sia avidità. E faccio molte cose senza alcun compenso, se sono importanti per la musica, per la cultura». O per ragioni affettive, come per il film sul «Canto sospe- so» di Luigi Nono? «Certo, e anche per ragioni morali. Con i Berliner abbiamo appena presentato il video del Canto sospeso, l'opera maggiore del musicista veneziano. Regista è Peter Wogage. I testi del brano, le lettere di condannati a morte della Resistenza europea, sono letti da Bruno Ganz e Suzanne Lothar, tra i migliori attori tedeschi, mentre scorrono quadri di Goya e di Picasso e molti filmati sui campi di sterminio nazisti, una specie di Combat film girato dai soldati russi. Lo eseguimmo così, nella Berlino ancora divisa, come canto di pace. Ne abbiamo fatto un film quale omaggio non caduco a un maestro e amico: per esplorare il suo universo e far capire meglio questa straordinaria composizione. L'anno venturo eseguiremo l'ultimo dei Caminantes, il suo testamento artistico, e lo porteremo da Berlino a Vienna, al Festival d'Automne di Parigi». Che cosa ha conquistato quella generazione di musicisti? Che cosa ha sbagliato? «Oggi, guardando da lontano gli Anni 60 e 70 e i maestri di Darmstadt - Bruno Maderna, Nono, Stockhausen, Boulez - ne vediamo la grandezza. Hanno trovato la via per continuare il filone di Mahler, di Schoenberg, della Scuola viennese. Come Kurtag ha proceduto sulle tracce di Bartók. Con loro, vedo ancora Ligeti e pochi altri. Errori? Ne fanno tutti, anche i geni. Nono, per esempio, non ha molto aiutato il pubblico a capirlo, e neanche i musicisti». Quella del Lingotto è la prima grande sala da concerti costruita in Italia nel dopoguerra. Perché non ci sono ancora riuscite Milano e Roma? Disinteresse per tutto ciò che non è effimero? «E' triste che a Milano continui a essere bloccato il progetto di ristrutturare il Teatro Dal Verme. E' ancora più doloroso che, con la chiusura in giugno delle orchestre della Rai di Roma e Milano, non rimanga accanto alla Scala e alla sua Filarmonica l'unica altra orchestra che producesse un'intera stagione sinfonica. A Berlino ci troviamo con sette orchestre sinfoniche. Roma? Non resta che sperare nei miglioramenti in atto nella sala di Via della Conciliazione per avere un luogo degno di una grande orchestra come quella di Santa Cecilia. L'effimero? L'episodico? Contro la buona musica c'è anche la mancanza di idee, di strategie, di progetti a lungo termine. Soprattutto una penosa assenza di cultura musicale». E' paradossale che l'Italia abbia tanti compositori stimati nel mondo e li costringa a lavorare all'estero. Paura di rischiare, di osare, di proporre? «Alla base c'è sempre l'ignoranza, la mancanza di coraggio di presentare opere nuove. Ma la musica è sempre stata "nuova" dai tempi di Monteverdi a oggi. Pelléas et Mélisande di Debussy "non era" musica, era troppo moderna per il suo tempo». Intanto Faust regna a Berlino... «Sì, ogni anno con i Berliner dedichiamo una stagione a un tema, che viene svolto naturalmente dal punto di vista musicale, ma anche cinematografico, artistico, teatrale, filosofico, con rappresentazioni e dibattiti. Ora siamo nel pieno del ciclo faustiano, inaugurato con l'Ottava di Mahler. In giugno con i Berliner abbiamo in programma il Faust di Schumann, che in questi giorni studio. Ma quanti musicisti ha ispirato il rapporto tra l'anima e il diavolo! L'anno prossimo toccherà alla tragedia e al mito greco: Elektra di Strauss, Oedipus rex di Stravinski, Lamento di Arianna di Monteverdi, Edipo di Wolfgang Rihm. E ancora, il poco noto Orfeo di Pergolesi e pagine di Ilaydn, Purcell, Musorgski». Europa e Stati Uniti. Da che parte si sposta il peso della bilancia dal punto di vista musicale, culturale? «C'è sicuramente un grande cambiamento rispetto a ventanni fa nel rapporto con l'America. Che ha una grandissima forza economica, può costruire quello che vuole. Ma non avrà mai la personalità, la forza del centro Europa: non solo nella musica, ma neanche nel teatro. Con tutto il rispetto per quello che fanno in campo cinematografico, teatrale, artistico. Le migliori orchestre americane suonano stupendamente, però mancano di quelle radici, di quella tradizione musicale, della passione, dell'amore che hanno i musicisti di Berlino e di Vienna». Fine secolo: che bilancio traccia di questi ultimi cent'anni? «Sarebbe bello poterli vedere come Cioran ha descritto la distruzione delle grandi culture: quella egiziana, poi quella greca e quella romana. Lui sostiene che con il nazismo è stata estirpata una grande cultura europea ed è morta. Penso che dalle radici piantate agli inizi del nostro secolo continuino a nascere germogli. Non è andato tutto perduto». Alberto Sinigaglia «In questa Scala la mia orchestra non tornerà più» «I nostri compositori emigrano: da noi c'é troppa ignoranza» - ce Claudio Abbado con i suoi Berliner. Annuncia: «Dal '97 dirigerò di meno» Qui sopra, la Scala. In alto, il Lingotto