BONHOEFFER INNAMORATO

BONHOEFFER INNAMORATO BONHOEFFER INNAMORATO Le lettere tra il teologo, impiccato dai nazisti, e la fidanzata Maria Sepolte» quarantanni, rivelano fede e sentimenti più forti del Lager « UESTO volume è l*eM vento inatteso dei miei RÉ fin ultimi anni di vita. Ora ■ B leggo la corrispondenza ■ che ho visto nascere j I stando accanto a DieB B trich, anche come suo H B alleato contro le per- B W plessità dei familiari sui nostri legami affet1 I tivi caratterizzati da una differenza di età insolitamente grande, prima nel mio caso e poi anche sul suo. Mi ero rassegnato a non vedere più queste lettere». Così scrive Eberhard Betghe - l'amico, discepolo, biografo e divulgatore di Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) - nella postfazione all'epistolario dell'amico con la fidanzata. Saranno molti a vivere come un evento inatteso e gradito la pubblicazione della corrispondenza tra il trentasettenne pastore e teologo della Chiesa confessante tedesca - in carcere perché accusato di resistenza a Hitler e impiccato il 9 aprile 1945 nel campo di Flossenbùrg su ordine di Hitler in persona - e la sua fidanzata diciottenne. I due sono fidanzati da tre mesi quando Dietrich viene arrestato: da quel momento potranno vedersi solo nei colloqui autorizzati dalla direzione della prigione berlinese di Tegel e scambiarsi un numero sempre più rarefatto di lettere sottoposte a censura o talvolta fatte uscire di nascosto - fino al tragico silenzio finale: «Il mio viaggio a Flossenbùrg è stato inutile. Dietrich non è qui. Chissà dove è finito. PATRIOTA, statista, uomo di virtù religiose: così era Toro Seduto, grande capo dei Sioux. E non il guerriero feroce e selvaggio, l'astuto uccisore del generale Custer, come lo vedevano ai suoi tempi i bianchi «portatori di civiltà». E' l'ultimo ritratto di uno studioso americano, Robert M. Utley, che si affida alle testimonianze, raccoglie una monumentale documentazione, racconta con il tono pacato di chi cerca la verità senza effetti da film western. Più che una biografia, Toro Seduto, è lo scorcio di un'epoca con la storia di un popolo, l'arrivo della Northern Pacific Railroad tra i pascoli dei bisonti, la libertà rinchiusa nelle riserve, il collasso di una cultura. Un tramonto pieno di grandi bagliori. Guerriero coraggioso? Utley evita le leggende e scava negli archivi. Secondo quanti lo avevano conosciuto bene (vecchi indiani intervistati nelle riserve del Nord e Sud Dakota) Toro Seduto aveva dato valide prove fin da ragazzino: con un colpo di tomahawk a un Crow aveva conquistato una penna bianca d'aquila e subito dopo una penna rossa per la prima ferita in battaglia. Era cresciuto distinguendosi negli scontri con le tribù nemiche e con i bianchi. Una fotografia mostra una figura dalla testa grossa, torace ampio, naso piatto e labbra sottili: appariva tozzo e un po' goffo, ma era svelto a piedi e a cavallo, usava abilmente l'arco e le armi da fuoco. Un giorno viene sfidato da un gigantesco esploratore Crow che precede una colonna di giubbe blu. I due si avventano a cavallo l'uno contro l'altro, Toro Seduto spara con il fucile e scoperchia Ù cranio dell'avversario. Si prende ciò che resta dello scalpo, rimorchia il cavallo e lentamente torna tra i suoi. Ma non è su queste prodezze che il biografo insiste. Rileva piuttosto la rapida ascesa di Toro Seduto come leader, l'influenza crescente sulla sua tribù, gli Hunkpapa, e sull'intero popolo Lakota di cui incarna lo spirito di resistenza contro i bianchi. Aveva un carattere complesso che la letteratura dei conquistatori ha imprigionato in un cliché. In famiglia era affettuoso, aveva sposato Quattro Coperte e si era preso nella tenda anche la sorella di lei. Vista Dalla Nazione, vedova con A Berlino non me lo dicono e a Flossenbùrg non lo sanno» (Maria a sua madre, Flossenbùrg, 19-2-1945); «Questa è la fine, per me l'inizio della vita» (Dietrich a un compagno di prigionia, Schònberg, 3-4-1945). Evento inatteso queste lettere, e doppiamente gradito perché ci rivela aspetti finora solo intuibili dell'animo di Bonhoeffer e nel contempo ci conferma tutto lo spessore umano e cristiano degli altri suoi scritti giunti fino a noi. Nessuna rivelazione sconvolgente, ma la sorprendente conferma di trovarsi di fronte non solo a un geniale pensatore e teologo, non solo a un lucido e consapevole resistente al nazismo, ma a un uomo vero la cui voce non è stata soffocata nemmeno dalla forca. «Sai, credo che la felicità sia situata solidamente e profondamente all'interno, dove il dolore non può semplicemente arri¬ Dietrich Bonhoeffer (secondo da destra) nel campo dì conccnlmmento di Tegel nel '43 vare, anche se a volte sembra smisurato» (Maria a Dietrich). E anche il ritardo con cui queste lettere giungono sino a noi è rivelativo di una verità profonda, quando la comunione tra due persone è autentica, nulla, né la lontananza, né la morte, né il tempo possono spezzarla. Maria von Wedemeyer (Pàtzig 1924 - Boston 1977) non aveva mai acconsentito alle amorose richieste degli amici che insistevano per veder pubblicata questa corrispondenza. Ma «il 4 febbraio 1976 racconta la sorella Ruth-Alice von Bismarck, fedele e appassionata curatrice di questo volume assieme a Ulrich Kabitz - per festeggiare il settantesimo compleanno di Bonhoeffer fu organizzato a Ginevra un simposio internazionale su Bonhoeffer. Maria fu invitata e incontrò teologi di molti Paesi e continenti che si definivano la "fami¬ glia spirituale di Dietrich Bonhoeffer". Con sua grande sorpresa Maria fu accolta e considerata in questo ambiente come parte di Dietrich. In una serata del convegno, Maria ed io parlammo per l'ultima volta di una possibile pubblicazione delle lettere... "Ero molto giovane allora. In realtà vorrei essere accanto a Dietrich anche come la persona che sono adesso"». Comunione ritrovata perché mai era stata infranta. In realtà Maria, acconsentendo poco prima di morire a pubblicare le lettere, accettando di «essere accanto a Dietrich anche come la persona che sono adesso», non ha fatto altro che realizzare un'intuizione del suo Dietrich risalente a 33 anni prima: «Se io fossi molto più giovane, forse ti amerei in modo completamente diverso, ma mai tanto come adesso. Sono contento di non fer aveva colto al primo sguardo: «Tu per fortuna non scrivi libri, ma fai, senti, riempi con la vita reale ciò di cui io ho solo sognato. Conoscere, volere, fare, sentire e soffrire in te non sono divisi, ma sono una grande unità, e l'uno è rafforzato e completato dall'altro. Tu non lo sai, e questa è la cosa migliore; forse io non dovrei nemmeno dirtelo» (Dietrich a Maria). Sì, l'uomo d'azione, il teologo legato alla concretezza della {(terrenità» impara l'aderenza alla realtà da una sognatrice; il predicatore stimato dagli amici e temuto dal regine scopre nel linguaggio semplice di una giovane infermiera che comunione è anche il fondersi di due tristezze: «A volte sono molto triste, ma tu non devi togliermi questa tristezza, devi soltanto aggiungere anche la tua» (Maria a Dietrich). Da questo libro, ottimamente curato anche nell'apparato di note e di rimandi bio-bibliografici, Bonhoeffer emerge, grazie a Maria von Wedemeyer, ancora più grande e umano, ma soprattutto il lettore emerge con un cuore placato, «e solo da cuori placati un giorno si diffonderanno nuovamente nel mondo pace e tranquillità» (Dietrich a Maria). essere più tanto giovane, so anche che per te può essere pesante; ma sono convinto che un giorno capirai e saprai che dobbiamo stare insieme così come siamo». E' una capacità di comunione nell'alterità che emerge da tutto il libro, una comunione più forte di ogni cosa, dell'evidenza stessa di un'atroce separazione: «E' un'attesa, un desiderio, una forte nostalgia, ma un'attesa e una nostalgia lieta e assolutamente sicura»; una capacità di percepire verità più grandi e più vere della realtà stessa, «Non è il sognare molto più vicino a noi di tutto ciò che viviamo veramente ogni giorno? Sognare è sapere l'uno dell'altro senza parole, senza espressione, senza qualsiasi altro pensiero che non sia l'essere insieme» (Maria a Dietrich). «E' un peccato che io non possa infilarmi nella tasca della tua giacca in formato ridotto. Così poi nella tua cella mi tireresti fuori e potremmo parlare a lungo indisturbati. Poi, quando devi lavorare, mi metteresti in tasca, l'abbottoneresti, ed io aspetterei finché non potessi tornarti utile». «Ho tracciato col gesso una linea intorno al mio letto, larga all'incirca come la tua cella. Ci sono un tavolo e una sedia, come io mi immagino. E quando sono seduta lì, credo quasi di essere insieme a te». Ingenuità e sogni di una ragazza ventenne che riuscirà a far sua la forza interiore dell'amato, fino a realizzare - in una vita che il destino voleva spezzare - quella grande, profonda unità interiore che Bonhoef¬ Enzo Bianchi D. Bonhoeffer-M. von Wedemeyer Lettere alla fidanzata Cella 92. 1943-1945 Quehniana. pp. 296. L. 35.000

Luoghi citati: Berlino, Flossenbùrg, Ginevra