CARTA STRACCIA PER UN TURCO

CARTA STRACCIA PER UN TURCO CARTA STRACCIA PER UN TURCO Un 'avventura diArjouni sempre in partenza. Vive poco a Francoforte, poco a Berlino, molto a Parigi e moltissimo a Narbonne, Francia, dove ha gli amici suoi. «Perché la Francia? Mi piacciono la lingua, il clima e il pane». Diresti che cerchi in tutti modi di sentirsi sempre straniero, per via dello pseudonimo e del personaggio che non gli somiglia affatto e per quell'insistere, narrando in giallo, sulla vita grama degli immigrati e il razzismo (anche omicida) che sta conquistando la sua Germania. Invece, lui ti dice: «Qui o altrove io non mi sento straniero, l'Europa è un posto senza più tante latitudini». Lo pseudonimo e il personaggio gli sono nati per caso. Racconta: «Avevo 19 anni, stavo scrivendo la mia prima storia e un giorno leggo di un turco, Kemal Altum, condannato all'espulsione, che si è buttato dalla finestra del tribunale di Berlino. Meglio il suicidio della miseria del ritorno... Ho deciso di cambiare faccia al mio detctive». Particolare che va a pennello con il paesaggio di morti ammazzati, periferie fangose, poliziotti corrotti, trafficanti di immigrati, di eroina, di sesso, che animano (se così si può dire) le fatiche notturne del suo Kemal. Ih Carta straccia deve ripescare una thailandese sparita nel nulla e che ha spezzato il cuore al triste signor Weidenbusch, che quando compare in ufficio, fa il suo effetto: «La porta si aprì e una palla colorata rotolò dentro. Scarpe marroni con nappe, pantaloni bianchi, cintura rossa, camicia a righe bianche e azzurre, cravatta verde a pallini, cappotto blu, ventre prominente e gambe corte». Nelle sue storie la polizia non fa mai una gran figura: tra birra e indolenza, lasciano che la polvere si posi sui guai dei «kanake», dispregiativo più pesante del nostro «vu' TANTA America, molta Italia. Se costruiamo un mappamondo dei libri cinematografati, il nuovo continente e il Bel Paese fanno la parte del leone nel nostro referendum. Un altro segno - se ce ne fosse bisogno - che, in sala buia, molta letteratura viene filtrata attraverso Hollywood. Le storie preferite dalla capitale del cinema sono ovviamente quelle americane. Anche se, spesso, gli sceneggiatori «made in California» si divertono a prendere i successi europei e ad americanizzarli, inoculando buone dosi di ritmo, e qualche sequenza d'automobile sfasciata. Tra gli americani più gettonati della settimana, Ernest Hemingway, scrittore dal rapporto conflittuale con gli scribacchini al soldo dei Mogul. cumprà» e, quando proprio se ne devono occupare, non lo fanno mai con gentilezza. «Questo fa parte della storia, ma anche della realtà dice Arjouni -. No, non mi considero uno scrittore politico, anzi la politica proprio deve sparire nel lavoro di uno scrittore, ma fa parte del realismo, dei dati di fatto, che invece sono la materia prima di una storia». Dice che questa esplosione di intolleranza non lo stupisce. «Nei giorni in cui veniva giù il Muro, ero a Berlino. Ricordo le notti piene di euforia, le bevute, i canti. Ma in realtà era un'atmosfera isterica, con i poveracci dell'Est che brindavano insieme con i poliziotti, i ricchi con i punk, gli universitari con i Vopos. E la birra era scadente. Non poteva funzionare. E infatti l'entusiasmo è durato pochi giorni». Poi, dice, è venuto a galla quello che per 40 anni americani e sovietici, fili spinati e polizia, avevano tenuto sotto al coperchio. E' anche per questo che lui se ne sta parecchio fuori dalla Germania e che gli piace il suo lavoro solitario: «Comincio a scrivere tardi la mattina ma vado avanti fino a notte. Quando stacco, leggo o vado al cinema». Ha gusti certissimi: Botho Strauss «orribile», Peter Handke «noioso», Thomas Bernhard «mai letto più di dieci pagine». Invece «grandissimi» Dòbkn, Kafka, Flaubert, McCullers e poi Fassbinder, «grande come il vostro Fellini». E poi i più amati: il regista Kusturica e il padre di tutti gli occhi privati, Hammett. Una bella sicurezza, per non avere ancora trent'anni. Però lui non si scompone proprio, sorride, come il suo turco, che va dritto per la sua strada tenendoci a bocca aperta. Nel suo genere è già un maestro. Pino Corrìas MMILANO ILANO è una città di pazzi e di cani. E' un mare di guai dove le persone nuotano incerte, un po' esche, un po' squali disinvolti e impacciati. C'è sempre qualcuno che vuole naufragare tra promesse non mantenute, che scopre il piacere del delitto. All'ombra di una Madonnina fine Anni Ottanta, prima della Lega, prima della voglia di conquistare i palazzi del potere romano, c'è anche un'ex bimba buonissima che si diverte dd avvelenare irritanti piccioni e sonnacchiosi barboni. Siamo nel romanzo di Andrea G. Pinketts appena uscito da Feltrinelli, direttamente nei tascabili, col titolo II vizio dell'agnello (pp. 235, L. 16.000). Un «nero» in piena regola, che occhieggia alla Milano crudele e borghese di Scerbanenco, e cerca di fotografare quella postmoderna, ammorbata da una follia più gratuita e forse più incurabile. La slava Branka, tutta arsenico e vecchi merletti, gode a fare la carogna per uccidere un vecchio terribile segreto. E Lazzaro Sant'Andrea, un po' detective col vizio di rimettere le cose a posto, un po' cartomante, sessuologo, pranoterapeuta (che usa lo pseudonimo di Dottor Totem, omaggio a Freud), le dà la caccia. Intorno un poliziotto disincantato, un gruppo di amici rovinati e inquieti, sfaccendati e faccendieri, ribelli senza causa, e soprattutto una città che sa frullare ricordi, follie, sogni. Andrea G. Pinketts si ritrova un cognome che sembra uno pseudonimo fatto apposta per il giallo. Ha trentatré anni, si è segnalato in tre edizioni del Mystfest con altrettan-