LA LISTA DI WALLENBERG

LA LISTA DI WALLENBERG LA LISTA DI WALLENBERG La biografia del console svedese che salvò gli ebrei ungheresi dalUolocausto Una Primula Rossa elegante e raffinata, una fine mgloriosa nelle galere di Stalin "■TV. OPO il libro di Enrim co Deaglio su Gior- l 1§| gi° Perlasca e l'ap- [ I n| parizione nelle sale i H cinematografiche H del film di Spielberg 0 sulla Lista di SchinB dler arriva in libre - ! ' W ria il ricordo del più Jl^^ misterioso e avventuroso fra gli uomini che si prodigarono negli ultimi mesi della guerra per strappare gli ebrei ai campi di sterminio. Domenico Vecchioni, autore tra l'altro di una bella biografia di Eva Perón e di una storia del conflitto delle Falkland, ha pubblicato con una prefazione di Gio/anni Spadolini la storia di Raoul Wallenberg, «L'uomo che salvò 100.000 ebrei» e divenne egli stesso emblematicamente, dopo la fine della guerra, vittima di una macchina repressiva non meno crudele di quella contro cui si era battuto. Wallenberg, ricorda Vecchioni, era un giovane svedese intelligente, mondano, cosmopolita, discendente di banchieri e diplomatici, una sorta di playboy brillante e irrequieto che cercava una parte da recitare, un ruolo in cui esprimersi. Lo trovò nell'estate del 1944 quando gli americani chiesero al governo svedese di assistere dall'Ungheria un organismo, il War Refugee Board, che si era tardivamente costituito per assistere gli ebrei nell'Europa occupata da Hitler. Wallenberg arrivò a Budapest nel luglio del 1944 e si trovò subito alle prese con una situazione contraddittoria. Vivevano ancora nella capitale ungherese 250.000 ebrei, la cui sorte era precariamente sospesa fra il declinante potere dell'ammiraglio Horthy e la crescente invadenza della Germania nazista. Finché godette di una certa autonomia il governo ungherese trattò gli ebrei come un utile «pegno» da conservare intatto per il giorno in cui gli alleati, dopo la guerra, lo avrebbero chiamato a render conto delle sue simpatie naziste. Ma un colpo di Stato dette alla Germania e alle «croci frecciate» (i nazisti ungheresi) il controllo politico del Paese. Apparve sulla scena Adolf Eichmann, deciso a completare in pochi mesi il lavoro incompiuto degli anni precedenti, ma dovette scontrarsi con l'inesauribile immaginazione e l'infaticabile energia di Raoul Wallenberg. Alla testa di una piccola organizzazione costituita dall'ambasciata di Svezia Wallenberg divenne, nel tragico autunno sul 1944, una sorta di Primula Rossa. Falsificò passaporti, rincorse i convogli dei deportati sulle strade dell'Ungheria, affittò case e appartamenti in cui alloggiare i perseguitati, minacciò, corruppe, intrigò e mentì pur di salvare gli uomini, le donne e i bambini a cui aveva deciso di dedicare la sua vita. Vecchioni ha ricostruito pazientemente e brillantemente una delle più singolari vicende della Seconda guerra mondiale. grazie agli sforzi della famiglia, la ricerca di Wallenberg. Qualcuno sostenne di averlo incontrato in un campo di concentramento in Siberia, altri raccontarono di avere comunicato con lui attraverso le pareti di una cella nel carcere di Vladimiro. Sollecitato dall'opinione pubblica internazionale il governo sovietico negò sino al giorno in cui Gromyko, allora ministro degli Esteri, comunicò che Wallenberg era morto a Mosca, nei sotterranei della Lubjanka, agli inizi del 1947. Ma non tutti credono nella sua morte, e ancora giungono dalla Russia, di tanto in tanto, le «prove» che Wallenberg è vivo. La speranza è probabilmente infondata, ma l'immagine del giovane playboy svedese sopravvive tenacemente nella memoria dell'Olocausto. Forse la Primula Rossa, dall'aldilà, continua a beffarsi dei suoi aguzzini. I sovietici occuparono la città prima che Eichmann potesse strappare a Wallenberg tutti i «suoi» ebrei. Il playboy svedese aveva vinto. Ma quel personaggio bizzarro che si era così abilmente destreggiato per alcuni mesi fra ministeri ungheresi e salotti nazisti insospettì gli agenti dell'Nkvd che viaggiavano al seguito dell'Armata Rossa. Gli uomini di Stalin non riuscivano a comprendere perché uno svedese ricco e intelligente avesse rischiato la propria vita per uno scopo - la salvezza degli ebrei che a Stalin dovette sembrare pretestuoso, velleitario o risibile. Forse credettero che egli fosse un agente americano e che la sua missione umanitaria coprisse una rete spionistica al servizio degli Stati Uniti. Forse credettero che egli fosse un agente nazista, abilmente infiltrato in campo nemico. O forse, più semplicemente, decisero che un personaggio così singolare e ai loro occhi indecifrabile andasse tolto di mezzo. Fu portato a Mosca, gettato nelle segrete della Lubjanka, trasferito nel carcere di Lefortovo, isolato, forse dimenticato. Comincia in quegli anni, l'ria scena del film di Spielberg «Schindlcr '.« List» Lettere di ex «nemici» e nuper essere fedeli al compito era un ufficiale richiamato e nell'inverno 1942-43 era partito dall'Italia con un battaglione di complementi destinato al I Alpini della Cuneense, quando per noi le cose erano messe proprio male e già parte dell'Armata italiana era stata battuta. In Sacrificio di alpini sul Don, che si ristampa ora, il tenente Quattrino racconta l'improvvisa partenza, il viaggio verso il fronte attraverso l'Europa innevata. Arrivano a Rossoso, sede del Corpo d'Armata Alpini, il 10 gennaio e dopo qualche giorno, a piedi per la steppa senza limiti, si avviano verso il settore dove è in linea la Cuneense. Il giorno 15 arriva un contrordine: i cani armati dell'Armata Rossa si sono infiltrati fino a Rossosc. Il battaglione complementi ritorna sui suoi passi per difendere quel centro. Ma non hanno armi anticarro, non mortai, non mitragliatrici: solo i vecchi fucili '91 e baionette. Un tenente riesce a «rubare» due casse di bombe a mano. Così, questi richiamati e queste reclute che sulle labbra hanno ancora il sapore di casa incominciano una battaglia assurda dalla quale pochi si salveranno. Ordini confusi, attacchi improvvisi, tormente di neve, marce allucinanti. Freddo. In queste condizioni i miseri resti di un battaglione d'alpini partito dall'Italia poche settimane prima, raggiunge la colonna della Tridentina e, insieme, usciranno dalla sacca alla fine del mese di gennaio. A Scebeniko, un ANCHE dopo cinquantanni quasi ogni giorno arriva un segno: un libro, una lettera, una persona, che riporta il tempo quando sul Fronte Russo imperversava la guerra forse più drammatica di tutta la nostra storia. Sul finire della scorsa estate venne dalla Germania un signore per incontrarsi con me: Bernhard Renninger, colonnello medico a riposo. Aveva letto il Sergente nella neve (tradotto in Alpini im russischen Schnee) e desiderava conoscermi. Era un sopravvissuto del XXIV Corpo d'Armata Corazzato i cui resti, dopo i combattimenti del dicembre 1942 nella grande ansa del Don, si unirono a noi alpini della Tridentina e ci diedero una mano a uscire dalla sacca del gennaio 1943. Il signor Renninger mi parlò del generale Reverberi, del maggiore Bracchi e del Vestone, il battaglione a cui appartenevo e al quale toccò il compito di essere quasi sempre punta di lancia nella drammatica ritirata. Aveva anche con sé alcune fotografie da lui fatte in quei giorni. Una in particolare mi colpì: i dossi di Nikolaewka punteggiati di uomini immobili nella neve: erano i miei compagni del Vestone, del Valchiese e del Verona caduti nell'attacco di quella mattina del 26 gennaio, quando ancora la massa era sui dossi un po' più lontani a guardarci. Evidentemente lui, il fotografo, era sceso