A TUTTO GAS NEL'900

LIMERICKS CHE FATICA LIMERICKS CHE FATICA Una nuova traduzione per inonsense di Lear lillipuziani e umoristici componimenti ATUTTO GAS NEL^ Fascino e storia delle pompe di benzina SCHERZI, bricioline di rime baciate dalla follia. «V'è un punto in cui ogni traduttore, per agguerrito e impazzito che sia, deve deporre le armi, e questo punto per la letteratura inglese mi pare possa fissarsi sui Limericks che Edward Lear mise di moda (ma non inventò) nel 1846». Ma il traduttore Ottavio Fatica ha accettato il confronto e non ha deposto le armi di fronte ai versi che l'anglista Mario Praz definiva ardui da rendere in una lingua che non fosse quella in cui erano stati creati. E adesso i «Limericks» di Lear escono da Theoria, lillipuziani e umoristici componimenti, cinque versi cadauno, che raccontano di signori che vanno a Berlino e finiscono in una torta, di anziane signore di Praga «che si esprimevano in maniera assai vaga», di un signore di Coblenza la cui «lunghezza di gambe era immensa», di un Tizio «col vizio di Troia / che trincava amaretto di soia». Le strofette, in cui l'ultimo verso ripete la stessa rima o le stesse parole del primo, scampoletti di parodie abitate da personaggi bizzarri, sono nate accompagnate dalle vignette create dallo scrittore e pittore inglese, nato a Londra nel 1812, e furono dedicate da Lear ai nipotini del Conte di Derby. Per avere manforte nella propria scalata al minuscolo universo dei Limericks, chiamati così dall'omonima città irlandese per motivi ancor oggi oscuri, Fatica si è fatto aiutare dal ritmo saltellante del signor Bonaventura (ricordate? «Qui comincia l'avventura...»), dagli accenti strampalati alla maniera di Stanlio e Onlio (abulia, capita, Corsica) e persino dalle canzonette di Petrolini e dalle filastrocche infantili. «Sono stato un vorace lettore delle strisce di Tofano da bambino e fin da piccolo non dimenticavo mai una filastrocca una volta imparata a memoria», ricorda Fatica. Quarantatre anni, flàneur, camminatore un po' distratto, somigliante ai suoi «narrabondi», gli scrittori inglesi come De Quincey, Lamb, Stevenson (che lui stesso ha antologizzato anni fa Aspettavo che scattasse la molla della "simpatia", della vicinanza a quel testo così imprendibile. A dicembre c'è stato il colpo di fulmine. Senza stare tanto a pensarci, molto rapidamente, è venuta fuori una scelta di 88 dei circa 230 Limericks lasciati da Lear». Tra gli appassionati del genere del nonsense ci sono stati Lewis Carroll, Oscar Wilde, Tennyson e tanti altri e il divertimento delle rime assurde ha coinvolto più di una generazione nell'Inghilterra vittoriana. Nelle colorate poesie di Lear non mancano, oltre alla superficie giocosa, anche parecchie punte di malinconia. Lear, che mai avrebbe pensato di passare alla storia per le sue stravaganti invenzioni, acque¬ rellista delicato per aristocratici e snob, gentiluomo frequentatore di salotti, in realtà era un gran solitario: affetto da epilessia, coltivava appassionati sentimenti d'amicizia per giovani signori che non lo ricambiavano. Divenne un insoddisfatto giramondo che si divideva tra Roma e l'Africa, tra via Condotti e l'India. Accanto alla follia e alla bizzaria, c'è un senso di spaesamento, di oscuro malessere, un vagabondaggio perenne e una curiosità insaziabile per i tipi più strani dell'umanità. Bisogna essere un po' poeti in proprio per trovare la soluzione giusta, per non tradire il senso rispettando l'andamento musicale? «Indubbiamente mettere in pochi versi la mescolanza di umori, di stadi che Lear rappresenta ha comportato molti ostacoli da superare. A volte sono stato infedele, infedelissimo, come per la poesia su Aosta: "C'è un anziano signore di Aosta, con la vacca fa botta e risposta" in cui ho cambiato la trama narrativa e la distribuzione delle rime o come nel caso in cui mi sono preso una bella libertà e ho sostituito Dover con Dove. Ma non è necessario per far tutto questo essere dei poeti, anche se non nego che da ragazzo avevo anch'io le mie liriche nel cassetto. Ma nella mia esperienza di traduttore mi accorgo che ogni testo è un caso a sé stante. La dote necessaria è la capacità di maneggiare bene l'italiano. Il traduttore è uno scrittore un po' bastardo, poiché ha come strumento la lingua, ma è anche un lettore e deve essere voracissimo e attento al peso specifico delle singole parole». Dopo i Limericks, quale altra traduzione l'aspetta? «Me l'ha proposto tempo fa Giulio Einaudi e non ho saputo dire di no. Ma mi rendo conto che è veramente un progetto dei più ambiziosi: sto lavorando all'Ulisse di Joyce. Ho tradotto i primi tre capitoli e mi sembra un'avventura senza termine: concludo una parte e torno all'inizio perché ogni parola rimanda a un'altra senza fine». Mirella Serri ■»* O avuto il mio pri1 ! mo scooter nel 1949. In verità si trattava di una pic|S HJ) cola motocicletta a X 4 tempi, un Motom 50 cmc che andava ij I a benzina. Fre3 quentavo i distriHl w3BL butori quando c'erano ancora delle pompe, specialmente per la miscela, con le colonnine a due vasi trasparenti, che si riempivano alternativamente e il misuratore dei litri era analogico. Per il controllo della pressione dei pneumatici c'erano dei pilastrini alti, sagomati e colorati. Quando non ci si doveva accontentare della pompa manuale Dunlop, quella indimenticabile colonnina cilindrica con il fermo a piede e con il doppio manico di legno. Bastava dare due vigorose pompate... Sono ricordi che tornano sfogliando il volume Benzina (a cura di Decio Grassi, introduzione di Rossana Bossaglia, testi di Guido Fisogni, L. 95.000). Una bella documentazione fotografica a colori basata sul materiale raccolto in un museo di pompe di benzina, la Collezione Sirm, che mostra i ritratti di quel mondo gregario e sussidiario alla vita dell'automobile, frugando analiticamente ed affettuosamente anche nelle sue propaggini dei globi, delle lattine, delle targhe, compressori, utensili, gadgets e giocattoli. Un genere che si affacciò e si installò con i suoi teatranti agli angoli delle strade ai primi del Novecento, mandando a casa i vecchi venditori ambulanti di kerosene e allorché i primi automobilisti smisero di fare il pieno dal farmacista o dal droghiere. Avendo io lavorato nel mondo dell'automobile e dei lubrificanti, ho contribuito negli Anni Sessanta alla nascita di oggetti promozionali quando lo sforzo inventivo era rivolto o alla miniaturizzazione della funzione del prodotto propagandato (piccoli distributori, piccole pompe accendisigari, piccoli pneumatici portacenere) o al dono, marchiato e giocato sull'utilità (coltellini, temperini, tagliacarte, saponette, minilattine, salvadanai, termometri, pepini, salini, spargitori d'olio da insalata). C'era come un tacito impegno a gettare un ponte di confidenza e d'intimità tascabile tra costruttore e cliente. Ricordo un reci¬ piente di grappa a forma di Fiat 600 e uno a forma di Mole Antonelliana. Erano comunque risultati che potevano entrare nella storia, anche se minore, del gusto, non fosse altro che per i materiali impiegati: smalti, porcellane, opaline. Oggi si va più sul sicuro con borse e capi di abbigliamento che però non lasciano traccia. Per restare nella storia del gusto, il lettore curioso potrà trovare in queste pagine come l'industriai design eh appena sessant'anni fa avesse due punti sicuri di riferimento. Esprimere in primo luogo attraverso le forme le funzioni del manufatto. Far vedere cioè di una pompa il vaso, il misuratore, i meccanismi, il globo, le leve, i bottoni di comando, le tacche, quasi un omaggio esplicito e dovuto alla meccanica e alla tecnica. In secondo luogo non dimenticare il vantaggio comunicativo di certi spunti affermati del mondo edificato che nella loro ripartizione architettonica simboleggiano una specie di suddivisione gerarchica della società. Dalle calandre di certi vecchi modelli automobilistici di taglio palladiano a questi distributori che stilizzano sagome di stazio-