Caro Ansaldo mi creda Mussolini non durerà di Giorgio Calcagno

LA MEMORIA. Settant'anni di storia d'Italia nelle lettere a un giornalista controcorrente LA MEMORIA. Settant'anni di storia d'Italia nelle lettere a un giornalista controcorrente Caro Ansaldo mi creda Mussolini non durerà CI INO Pestelli, redattore capo de La Stampa negli ultimi Anni Venti, lo corteggiava per ingra I ziarsi «il primo giornalista d'Italia». Eugenio Montale gli si rivolgeva umilmente per chiedere di collaborare al suo giornale. Pietro Nenni lo supplicava, in nome della comune fede, per poter avere suoi articoli («Tu farai ciò che ti pare. L'importante è che tu ci aiuti e puoi molto»). Nello Rosselli gli scriveva una lettera di condoglianze per la morte di Gobetti, sapendo quanto fosse fraterna la loro amicizia. Nessuno di loro avrebbe pensato che il destinatario di queste lettere qualche anno dopo sarebbe diventato la voce del regime alla radio, il più intelligente - ma proprio per questo più pericoloso - alabardiere del fascismo. Il personaggio è Giovanni Ansaldo, l'uomo che riuscì ad essere sempre dalla parte sbagliata, mandato al confino da Mussolini nel '27, nel lager dai nazisti dopo l'8 settembre, in carcere per collaborazionismo nel '45. Le Lettere al redattore capo, con una scelta dei carteggi da lui accumulati quando era al Lavoro, ci dicono quanto fosse stata centrale la sua figura nella cultura democratica del primo dopoguerra. E il libro, edito da Rosellina Archinto a cura di Giuseppe Marcenaro, che si dedica da anni al recupero di Ansaldo, contiene molte sorprese. Il quotidiano socialista di Genova, fondato d? Giuseppe Canepa, era un giornale piccolo, ma Ansaldo lo aveva proiettato sulla ribalta nazionale, gli scrivevano tutti, da Croce a Einaudi, da Amendola a Prezzolini. E, con lui, si confidavano, in quegli anni già difficili. Due lettere, fra le più importanti, sono quelle che arrivano ad Ansaldo subito dopo la marcia su Roma. «Dobbiamo restare al nostro posto in attesa di essere soppressi o perseguitati - gli scrive Piero Gobetti il 31 otto- li solo a rifiutare l'assegno di 18 milioni Vorrei ringraziare il presidente Ciampi, per averci portato fuori da una situazione critica che rischiava di farci affogare tutti e, voglio sottolinearlo, tutto gratis, perché è stato uno dei pochi, anzi credo l'unico che io sappia, a rifiutare l'assegno di 18.000.000 di lire che gli toccavano come presidente del Consiglio. Grazie presidente, grazie di cuore, per aver lavorato gratis per l'Italia. Volevo anche dire al ministro Giugni che, se l'on. Berlusconi afferma di poter creare un milione di posti di lavoro, io ne troverei anche di più, andando a scandagliare nelle liste di collocamento, chi è vero disoccupato e chi invece è iscritto alle liste di collocamento e invece fa il lavoro in nero. Proibirei ai pensionati di lavorare sia il lavoro dichiarato sia quello in nero. Sa quanti disoccupati troverebbero lavoro? Dare una pensione dignitosa e dare lavoro ai disoccupati costa meno che pagare pensioni modeste e in più se ne avvantaggerebbe il fisco perché il lavoro in nero non paga le tasse e l'indennità di disoccupazione o la cassa integrazione costano di più di una pensione dignitosa. Anche a me, quando sono andata in pensione dopo 40 anni di lavoro, hanno offerto il lavoro in nero, io ho rifiutato perché mi sarei vergognata davanti a tanti disoccupati. Si vede che gli altri non si vergognano di togliere il pane dalla bocca degli altri. Immacolata Conte, Cuneo Quella lettera del generale Donovan Ignoro quale fatto storicamente importante sia accaduto il 25 aprile del 1944, tale da far anticipare di un anno le celebrazioni per il cinquantenario della fine della guerra di Liberazione, seguita alla dichiarazione di guerra contro la Germania nazista che aveva occupato manu militari due terzi dell'Italia dopo la pro- Dalla corrispondenza con Salvemini, Gobetti e molti altri, la figura di un anticonformista che riuscì sempre a stare dalla parte sbagliata bre 1922 -, poi faremo un giornale letterario simbolico con un linguaggio per iniziati o andremo in Russia o in Turchia a cercare un po' di elementare libertà». Vincenzo Torraca, il grande allievo di Francesco De Sanctis, ha perso ogni speranza: «Non credevo davvero che la viltà dei dirigenti italiani fosse così grande. C'è qui come una volontà di servilismo in tutte le classi sociali... Qualche amico di Mussolini mi ha formalmente assicurato che dopo le elezioni il governo si libererà dall'influenza della banca e dell'alta industria e si orienterà nettamente verso il liberismo. Io non ci credo». Luigi Emery, gobettiano fedele, è già all'estero: «Adesso in Italia come si fa a fare del giornalismo?», scrive il 20 febbraio 1923. «Beato chi è abbastanza giovane e non troppo scettico negli anni ormai, e può così tuffarsi negli studi, LiTTERE AL GIORNA A sinistra, Piero Gobetti. Sopra, Ansaldo in caricatura remoti quant'è possibile dall'attualità politica». Poco dopo, è all'estero lo stesso Ansaldo, in Germania, e il filosofo Santino Caramella, l'altro gobettiano di Genova, gli consiglia di non tornare: «Non ti lascererebbero più il passaporto». Ma Ansaldo torna, riprende il posto nella sua trincea. Dove gli scrivono anche i fascisti dichiarati, come Curzio Malaparte, per spiegare le loro scelte («Mi vanto di contare amicizie anche nel campo di Agramante»). Il solo a non accettare il dialogo è il filosofo Giuseppe Rensi, che rompe bruscamente la collaborazione, non accettando un taglio a un suo articolo: «Il taglio desiderato mutila il pensiero su un punto essenziale rendendolo esclusivamente antifascista, mentre invece esso è e vuol manifestarsi antifascista e antibolscevico insieme». Viene il delitto Matteotti, i ALE Molti stanno già cambiando casacca. Benedetto Croce, in una lettera del 20 febbraio 1928, cita con tristezza «il mio ex amico Gentile» e denuncia, con parole oggi profetiche: «Certo gli storici spiegheranno e giustificheranno (storicamente) anche le fesserie che il Gentile viene ora predicando. Hanno giustificato quelle dei giacobini. Ma che faccio? Una malattia può essere un fenomeno di crescenza; e tuttavia bisogna curarla, ossia opporvisi». Tommaso Fiore, da Altamura (17 febbraio 1928), lamenta la condizione in cui è stato gettato, senza più possibilità di vivere: «Una cosa ho sempre salvato, per istinto e per ragione non so, cioè la dignità e l'onore. Ora non so come si possa continuare a salvarli a via di infingimenti, di protezioni, di sopportazioni...». Con gli Anni Trenta i nomi dei corrispondenti a poco a poco cambiano. Insieme con i superstiti socialisti, o alcuni giovani autori come Benedetti o Soldati, entrano in scena nuovi personaggi: Polverelli, Giorgio Pini, fino ad Arnaldo Mussolini, che scrive ad Ansaldo per complimentarsi dei suoi articoli e chiedergli notizie del nipotino. Il corteggiamento al «primo giornalista d'Italia» è già cominciato e darà presto i suoi frutti. Giuseppe Ungaretti il 28 agosto 1933 gli manda una lettera di sei pagine, con una propria biografia, tutta inneggiante a «quell'uomo, che è più forte della mia vita stessa». Senza alcun ritegno, l'autore dell'Allegria dice che il viso della propria madre «ricorda quello di Mussolini» e spiega perché ha voluto dare al proprio figlio il nome di Antonio Benito. «Ti abbraccio», conclude il poeta che undici anni prima era addirittura sceso in duello contro il giornalista di parte avversa. Sta per cominciare un'altra storia: ma quella, purtroppo, la sappiamo già. tempi si fanno più bui. Ma c'è chi si illude ancora. Come Gaetano Salvemini, che il 17 giugno 1924, sette giorni dopo la scomparsa del deputato socialista, scrive ad Ansaldo: «Mi pare che questa crisi abbia avuto come conseguenza la sgonfiatura della vescica Mussolini. Non c'è più un duce, un dittatore, un padreterno. C'è un Facta in più, in Italia». Nitti è addirittura ottimista. «Io ho una visione serena e non credo che lo spirito di reazione durerà a lungo», scrive il 21 novembre, da Zurigo. Un gobettiano sicuro come Umberto Morra deve illudersi molto se arriva a stupirsi perché Ugo Ojetti non ha voluto firmare il manifesto Croce: «Rifiutò per non firmare accanto a te (e a Gobetti)». Il leader dell'Aventino è più scettico: «Coraggio e andiamo avanti - scrive Giovanni Amendola il 5 agosto 1925 -. Ma sento non lontano il traguardo oltre il quale tutta la nostra azione pratica dovrà essere ripresa in esame». Sandro Pertini, che il 6 agosto scrive da Savona al «signor Ansaldo», ha capito una cosa fondamentale: «Che nella presente lotta sono necessari più che uomini d'ingegno uomini di carattere e che il vero segreto per vivere sta nel saper attendere». Ci vorranno vent'anni perché la storia gli dia ragione. Nel frattempo Filippo Turati lamenta il sequestro della sua Critica, il 26 febbraio 1926, «per quelle due righe - denicotizzatissime - sul povero Gobetti. Evidentemente il governo non vuole che se ne parli, perché nessuno pensi che fu ucciso e da chi. Abbiamo fatto una seconda edizione espurgata, sostituendo al necrologio il decreto, ma non sappiamo ancora se passerà, perché pare che quelle canaglie vogliano purgarci drasticamente senza neppure che si senta il puzzo». Benito Mussolini. Nella foto grande, Ansaldo con Giuseppe Canepa nel 1920 Giorgio Calcagno