Liberismo, scontro con la sinistra, crociate contro il «culturame»: l'Italia si specchia nel decennio del muro contro muro di Aldo Baquis

Liberismo, scontro con la sinistra, crociate contro il «culturame»: l'Italia si specchia nel decennio del muro contro muro Liberismo, scontro con la sinistra, crociate contro il «culturame»: l'Italia si specchia nel decennio del muro contro muro oggi vince perché immune da quel virus che avrebbe inquinato la politica italiana negli ultimi decenni: l'affievolirsi della linea di demarcazione tra maggioranza e opposizione, l'accordo sottobanco, la sindrome spartitoria che non vuole scontentare nessuno e che annacqua le responsabilità. Un virus che il nuovo blocco di destra considera come il male assoluto della Prima Repubblica e che invece Aris Accornero, docente di sociologia industriale, giudica come un lento processo in cui «si sono gradualmente persi quei connotati di estrema cru dezza, di dilacerante contrapposizione che invece caratterizzò lo scontro politico nell'Italia degli Anni Cinquanta». Accornero, operaio Fiat licenziato nel '57 «per rappresaglia politico-sindacale», quella durezza degli Anni Cinquanta l'ha sperimentata sulla propria pelle. E dalle sue parole non traspare una grande nostalgia per quell'epoca vissuta come «una lunghissima tenzone tra due blocchi divisi da una lacerante competizione ideologica, senza forze intermedie che ne mitigassero l'urto». Un ritorno a quell'epoca indubbiamente «preconsociativa» non gli pare augurabile e se qualche analogia deve essere rintracciata tra quegli anni e il «progetto-Italia» indicato dalla nuova destra di governo, ad Accornero viene in mente «l'apprensione che la sinistra nutre oggi per un eventuale sussulto autoritario della destra al governo molto simile alla paura che all'epoca si nutriva a sinistra per il prevalere dello scelbismo, l'attacco brutale al diritto di sciopero e ai diritti sindacali». Paure, apprensioni: dati della psicologia collettiva ma non per questo puramente immaginari o irreali. Ma l'espressione «Anni Cinquanta» davvero rimanda soltanto a un'epoca di scontri frontali, di asprezze ideologiche, di muro contro muro? Intervistato dall'Unità, per esempio, lo storico Francesco Barbagallo, curatore di una er 50 anni negli archivi De Gasperi colto da sconforto. In alto: una Topolino in via Montenapoleone della Knesset: finti amori per salvare la vita Storia dell'Italia repubblicana pubblicata da Einaudi e in libreria da qualche giorno, ha affermato, parlando degli Anni Cinquanta e del «centrismo» degasperiano, che «il giudizio storico è positivo: si tratta infatti di una grande trasformazione all'interno della quale convivono, però, sviluppo e squilibri». Un quadro sfumato, che contrasta singolarmente con un giudizio storico, tuttora prevalente a sinistra, che liquida quegli anni in termini di «sconfitta». E del resto, anche Aurelio Lepre, autore di una fortunata Storia della Prima Repubblica pubblica ta dal Mulino, invita a non rilegge re quegli anni come un tutto omogeneo e privo di chiaroscuri. «Prendiamo per esempio la politica economica del "liberista" Einaudi», spiega Lepre: «Quando Einaudi cancella lo spaventoso debito pubblico attraverso l'inflazione, non attua forse una politica di duro intervento statale nell'economia molto poco in sintonia con l'ortodossia del liberismo? Lo stesso quando promuove un'energica restrizione del credito o interviene sulla stabilità dei prezzi». Einaudi, cioè, fu secondo Lepre tutt'altro che il vessillifero di un liberismo «puro» così come viene fantasticato dalla destra liberista. E come sottovalutare quella serie di interventi di politica economica e sociale che rendono difficile l'interpretazione di quell'epoca come la manifestazione storica di un «antistatalismo» assoluto e di «restaurazione liberista», come l'ha definita la vulgata storiografica della sinistra, dal piano Fanfani per la costruzione delle Case popolari (Ina-Casa) alla legge che istituisce la Cassa per il Mezzogiorno per promuovere «lo sviluppo economico e civile delle regioni meridionali» attraverso il finanziamento statale per infrastrutture come strade, acquedotti e centrali elettriche, dalla riforma agraria che frazionava le grandi proprietà terriere alla «legge Vanoni» di riforma fiscale che introduceva l'obbligo di presentare la denuncia dei redditi? E poi, ricorda Piero Melograni spiegando perché l'Italia, malgrado la sua straordinaria crescita materiale, non sia mai riuscita a diventare «pienamente moderna», «un nuovo ente pubblico destinato ad assumere vastissime dimensioni, l'Ente nazionale idrocarburi, era sorto nel 1953» sotto l'impulso di Enrico Mattei. Il ministero delle Partecipazioni statali, incaricato di coordinare la sempre maggiore presenza dello Stato nelle cose economiche, fu istituito nel 1956». E', secondo Melograni, l'affiorare di un'altra linea politica, economica e sociale che chiuderà ben presto l'epoca «liberista» ispirata da De Gasperi e Einaudi in cui si consentì «al sistema produttivo italiano di risorgere, sopravvivere e potenziarsi», questa linea {(parallela» si imporrà proprio a metà degli Anni Cinquanta con l'ascesa di Amintore Fanfani attraverso «una gigantesca commistione di politica e affari» che «sarebbe dovuta servire a correggere "l'ispirazione materialista del capitalismo" nel rispetto dei principi cristiani» come lo stesso Fanfani «dichiarò al congresso nazionale di Trento del suo partito nel 1956». Una compresenza di linee e ispirazioni che presto si risolverà nella vittoria della posizione «statalista». Senza peraltro attenuare quel clima di «scontro sociale durissimo», come lo definisce Aurelio Lepre, che si aumentava non solo dalle asprezze della «ricostruzione» ma anche da un'atmosfera di urto frontale che la guerra fredda rendeva particolarmente acuto in un Paese di frontiera come l'Italia dove tra l'altro era molto mas- Piero Melogran Piero Melograni siccia la presenza di un partito come il pei reso solido e compatto da quel «legame di ferro» con l'Urss che Palmiro Togliatti rivendicava come risorsa fondamentale e insostituibile. «Quel clima di guerra fredda», spiega Lepre, «è irripetibile nelle condizioni attuali ed è proprio questa differenza che rende problematica un'analogia tra gli Anni Cinquanta e 0 progetto che la destra che ora va al governo intende attuare». Eppure, ammette Lepre, quel clima di «scontro durissimo che, non dimentichiamolo, portò alla mano dura di Sceiba, potreb- be riproporsi se la destra scegliesse di imboccare una linea di politica economica intransigente che porterebbe inevitabilmente a una rottura col mondo sindacale». Un'ipotesi da brivido, naturalmente, se solo si pensa a episodi entrati di prepotenza nella nostra memoria collettiva come i sei morti degli scontri di Modena, o i quattro morti della provincia di Catania durante una manifestazione di protesta per la mancanza d'acqua. Ipotesi, dice Accornero, che presuppone il venire alla luce di «una divaricazione totale» tra le forze in campo: il sapore amaro degli Anni Cinquanta. Pierluigi Battista Gli internati nei campi di concentramento divennero «un'occasione» di espatrio per donne tedesche buona qualità avessero prima». Dei drammatici dibattiti alla Commissione parlamentare per l'immigrazione (che in quei mesi in cui Israele combatteva per la sopravvivenza fu costretta a negare l'ingresso agli sfollati che erano malati cronici, perché non c'era modo di assisterli) l'opinione pubblica israeliana non fu informata. I giornali parteciparono a una «congiura del silenzio», dice Hacohen. «La commissione ha discusso dell'immigrazione delle donne straniere - scrisse il 7 novembre 1948 Hazofè, il giornale vicino al ministro Shapira - e ha adottato una decisione in merito». Chi fossero le «donne straniere» e quale «decisione» fosse stata presa non veniva precisato, né i lettori volevano saperne di più. «A pochi anni dall'Olocausto - ritiene Hacohen l'argomento era troppo scottante». Aldo Baquis

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