«Patto boss-politici contro i pentiti» di Francesco La Licata
Cancemi: cercarono di far cadere la legge Cancemi: cercarono di far cadere la legge «Patto boss-politici contro i pentiti» m m PADOVA DAL NOSTRO INVIATO Totò Cancemi, ex rappresentante della «famiglia» di Porta Nuova ora dissociato e gran fustigatore dello «stile» corleonese, è uno di quei personaggi che tradisce immediatamente la propria origine. Che lui sia stato mafioso e che la presa di distanza da Cosa nostra deve essergli costata parecchio travaglio interiore, si intuisce soltanto a guardarlo o a sentirlo. I suoi argomenti risultano abbastanza convincenti sul piano della logica (mafiosa) e della «impostazione generale», fino ad avere influenza persino nell'economia del processo che, invece, dovrebbe soffermarsi di più sui «piccoli fatti» che sono costati (finora) 15 mesi di carcere al dott. Bruno Contrada, accusato di collusione con la mafia. In sostanza: don Totò Cancemi, parlando ieri nel bunker di Padova, ha dato dimostrazione di autorevolezza accreditandosi finalmente come «pentito serio», ma non si può dire sia stato determinante per l'accertamento delle presunte responsabilità dell'imputato. Le risposte del collaborante sono state sempre attente al «superiore interesse», cioè mantenersi autorevole. E così dopo la scontata descrizione di Cosa nostra, come e perché si entra, perché sia impossibile uscirne; dopo l'attesa condanna della ferocia di Riina e Provenzano («due animali, uguali tra di loro», giura Cancemi), dopo un prologo abbastanza comune a tutte le uscite pubbliche del pentito, ecco il messaggio, per così dire, politico. Dal nugolo di carabinieri del Ros che coprono il collaborante - ben nascosto dopo le polemiche per le immagini di Spatola su giornali e Tv - fugge la voce calma e suadente di don Totò Cancemi: «Dopo la cattura di Riina, la strategia di Cosa nostra contro i pentiti è cambiata. Hanno cercato e trovato agganci politici per far annullare la legge sui collaboratori della giustizia. L'ho sentito dire allo stesso Provenzano, che ho incontrato due volte nell'arco di tempo tra gennaio e luglio del 1993. Ma anche Biondino e Raffaele Ganci mi dicevano di essere a buon punto. Una volta Provenzano mi disse: "Abbiamo qualcosa nelle mani per arrivare a buon fine"». L'argomento non è stato approfondito in aula, ma è pensabile che tutto ciò sia materia d'indagine in altri procedimenti. Bernardo Prov Bernardo Provenzano zano Ha «buone» origini la carriera mafiosa di Cancemi. Proviene dalla famiglia di Pippo Calò, boss «moderno», pieno di soldi e di amicizie altolocate nel mondo della politica e dell'alta finanza. Racconta di essere stato iniziato da Vittorio Mangano. Questi è un mafioso abbastanza noto per essere stato, in qualche modo, al centro delle attenzioni della magistratura che si chiedeva che ci facesse un tipo del genere nella villa di Arcore, frequentata, come si sa, da Berlusconi e dal suo braccio destro Marcello Dell'Utri. Cancemi non si è soffermato più di tanto sull'argomento. Di Contrada, il collaborante dice in sostanza: «Era nelle mani di Cosa nostra. Nelle mani di Rosario Riccobono. Me lo ha detto il mio amico Giovanni Lipari. Pippo Calò di lui mi disse: "E' uno sbirro che mangia". In Cosa nostra si parlava di Contrada come persona vicina a Bontade e Riccobono». Le fonti di Cancemi? I due citati e «qualche altro» di cui non sono stati fatti i nomi. Poi il pentito ha aggiunto che «sempre» la mafia ha avuto amici e informatori tra le forze di polizia e nella magistratura. Il boss Giuseppe Lucchese, secondo Cancemi, sapeva come era morto Salvatore Marino mentre veniva interrogato in questura: glielo aveva raccontato «uno sbirro». «Era notorio che Contrada fosse uno di quelli a disposizione». E poi: «Anche Badalamenti sapeva di Contrada». E ancora: «Calò seppe in anticipo che Buscetta e Contorno collaboravano e che c'erano in arrivo i mandati di cattura». «Mi è stato riferito che Contrada fece avere a Stefano Bontade patente e porto d'armi». Per soldi? Cancemi fa intendere che non vuol macchiarsi la coscienza: «Onestamente non mi risulta che abbia avuto compensi». Ma il «fatto nuovo» dell'udienza non viene da Cancemi. Arriva sotto forma di verbale ammesso agli atti. Il pentito Gaspare Mutolo, interrogato il 22 aprile, racconta di un altro incontro fra Contrada e il capoclan Riccobono. Il boss rimprovera a Mutolo, allora suo diretto «dipendente», uno sgarro compiuto dal cugino che era andato da Contrada a lamentarsi perché «quelli gli succhiavano il sangue», cioè gli facevano le estorsioni. Secondo Mutolo, a Riccobono la soffiata era stata data dal poliziotto. Francesco La Licata
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