Nuova Cina così lontana di Giulietto Chiesa

Un saggio di Lina Tamburrino Un saggio di Lina Tamburrino Nuova Cina così lontana |A Cina è già «dopo il comi Imunismo»? Credo che potremo conoscere la risposta - come ha scritto il più I recente biografo di Mao, Ross Terril - solo all'incirca cinque anni dopo la morte di Deng Xiaoping. Colui contro il quale le guardie rosse di Mao Tsedong furono invitate a sparare, il rappresentante più nefasto di quel «quartier generale» che aveva «imboccato la via capitalista». Mao, in certo qual senso, fu profeta, anche se con molto anticipo. La questione da cui siamo partiti - e che costituisce, senza il punto interrogativo, il titolo di un bel libro di Lina Tamburrino, la Cina dopo il comunismo (Laterza) - è di rilevante importanza. Dove stia andando la Cina, a quale velocità, con quali conseguenze, riguarda infatti il pianeta intero. E non solo per le dimensioni. La Cina è sempre stata un colosso. Lo è diventata ancor più quando la rivoluzione di Mao le restituì la sua identità nazionale e statuale. Ma in questa seconda metà del secolo il colosso è rimasto relegato nei suoi confini. Il comunismo cinese - a differenza di quello sovietico - non fu in condizione di proiettarsi verso l'esterno. Troppo poco il tempo, troppo immensi i compiti e le complessità di quel progetto. Il mondo ha guardato a quell'esperienza con curiosità, a tratti affascinato dai successi, a tratti inorridito dalle convulsioni. Ma non ne è stato coinvolto, non ne ha avuto paura. La Cina non è mai stata «vicina». Un po' paradossalmente essa sta diventando un problema nel momento in cui si stacca dalla riva comunista per gettarsi nel mare del mercato. Sono bastati pochi anni di «svolta» perché le ondate provocate dalla sua virata si avvertissero su tutte le spiagge: dall'Asia del Pacifico all'Atlantico. E siamo solo all'inizio. Tutto fa pensare che il XXI secolo sarà il secolo della Cina, ma resta aperta la questione di quale sarà il segno della sua presenza. Prevederlo oggi è impossibile, ma si può tentare di cogliere i possibili vettori di uscita dall'attuale transizione. Purché si eviti di restare intrappolati negli schemi ideologici che hanno finora ostacolato l'analisi delle «transizioni» dal socialismo al capitalismo. In questo senso il libro di Lina Tamburrino - corrispondente dell'Unità da Pechino per cinque anni, dal 1987 al 1992 - è un contributo prezioso di conoscenza per individuare i nodi della transizione cinese, ma anche per confrontarla con altre transizioni in corso, quella russa in primo luogo. E' diventato quasi un luogo comune confrontare la transizione cinese e quella russo-sovietica con lo schema «riforma lenta-riforma veloce» (variante dello schema «riforma economica-riforma politica»). La Cina sarebbe, per alcuni, il campione della riforma lenta, programmata dal partito. Mentre la Russia, non più di Gorbaciov ma di Eltsin, sarebbe l'alfiere della riforma veloce, delle terapie-choc. C'è del ve¬ ro, come in tutti i luoghi comuni, ma molto poco. E il resto è falso. Che emerge subito, non appena si risponda empiricamente alla domanda: chi dei due soggetti ha oggi il maggiore tasso di capitalismo? La Cina o la Russia? Credo che nessuno possa dare per vincente la Russia odierna. Eppure - sebbene la svolta denghista risalga al 1978 - i due colossi socialisti hanno cominciato a «riformarsi» più o meno insieme, tra il 1990 e il 1992. E non c'è dubbio che la Cina ha percorso, negli ultimi tre anni, molta più strada. La prova viene proprio dal «mercato», che ha riversato nella Cina «ancora comunista» di Deng quasi 20 miliardi di dollari d'investimenti (privati, si badi bene) nel solo 1993. Mentre gl'investitori privati di tutto il mondo ancora esitano a rischiare le loro fortune nella Russia del democratico presidente Eltsin. Se ne dovrebbe dedurre che la riforma cinese è «più veloce» di quella russa. E, di nuovo, lo schema si rivela debole, molto ideologizzato, adatto solo a soddisfare la fretta omologatrice dell'Occidente. Basti un dato tra quelli suggeriti da Lina Tamburrino: il confronto tra le «due Cine» create dalla riforma. La «prima Cina», quella del socialismo reale, dell'economia protetta, della sicurezza del lavoro, e la «seconda Cina», quella del nuovo mercato, della libera iniziativa, della proprietà privata. Questa «seconda Cina», dicono le statistiche, coinvolge 22 milioni e mezzo di persone. Una bella massa di popolo ma, rispetto al miliardo e 230 milioni della popolazione, è 1' 1,8%. Se facciamo il confronto con le «due Russie», troviamo un panorama del tutto diverso. La «seconda Russia» tocca i 7,5 milioni di persone, cioè il 5% della popolazione. Ne dovremmo concludere che la Russia è andata verso il mercato quasi tre volte «più veloce» della Cina. Vero? Falso? Né l'uno né l'altro: è un confronto improponibile senza contare altri fattori. Per esempio la situazione della «prima Cina» e della «prima Russia». Qui la differenza è clamorosa. La «prima Cina» non solo non è andata indietro, ma ha continuato a funzionare. Con le sue inefficienze ma, per certi aspetti, ha perfino migliorato i propri standards. La «prima Russia», invece, è crollata di schianto, è stata abbandonata a se stessa. Troppi milioni di persone hanno perduto quasi tutto e troppo pochi, in troppo poco tempo, hanno guadagnato qualcosa. La differenza è qui. Deng ha tratto la lezione dalle esperienze tragiche dei «grandi balzi» e ha puntato sulla stabilità politica. C'è voluta una Tienanmen, ma per ora il risultato è acquisito. Eltsin ha scelto un'altra rivoluzione, nella speranza di bruciare le tappe e far nascere il bambino in tre mesi invece dei nove regolamentari. Ma non ha per questo evitato la sua sanguinosa Tienanmen. Con contorno di Vladimir Zhirinovskij. Giulietto Chiesa