E il «grande seduttore» fa l'equilibrista di Filippo Ceccarelli

E il «grande seduttore» fa l'equilibrista E il «grande seduttore» fa l'equilibrista A Palazzo Chigi con vecchi riti, attento al nuovo IL CERIMONIALE CAMBIA LOOK TROMA OTTO tranquille a via dell'Anima. I soliti poliziotti, le solite transenne arrugginite, i soliti lavori in corso, rumorosissimi, intorno alla statua di Pasquino. Il presidente Berlusconi, presidente anche senza incarico, presidente prima dell'incarico, non c'è. Ma dov'è? I giornalisti più informati e ostinati, gente che ha dato del tu a tutti gli autisti e agli agenti di scorta della Prima Repubblica, inforcano di nuovo il motorino e senza una parola puntano su piazza Farnese. Fosse rimasto, il Berlusca, a casa dell'avvocato Previti, dove ha fatto sosta a pranzo. Lì, nella casa con la piscina o idromassaggio che sia, quel portone a fianco del ristorante «tartufaro» dove la leggenda postdemocristiana narra che fu organizzata l'elezione di Forlani... Potenza degli sconvolgimenti politici, logistici e toponomastici di Roma. Tutto cambia, nella capitale, da secoli: i luoghi d'incontro e gli itinerari, i volti e i costumi dei potenti, ma il passato vi lascia sempre un'ombra strisciante, un ricordo quasi beffardo, un piccolo rumore che stride, un odorino un po' stantio. Comunque, neanche a piazza Farnese c'è Berlusconi. E nemmeno nello studio di Previti, a via Cicerone, dove anni orsono alloggiava il primo Cirino Pomicino e qualche giorno fa un giornalista del Gr è stato travolto dai suoi, diciamo, colleghi eccitatissimi ed è finito all'ospedale. Il presidente, come scoprono poco più tardi i cronisti riconoscendo la Thema argentata, è all'Umiltà. Qui adesso c'è la sede di Forza Italia, ma ieri ci si veniva a trovare Tonino Tato. Bene, il Dottore è in riunione. Solo a questo punto, perciò, dopo via dell'Anima, dopo piazza Farnese e dopo l'Umiltà, vale la pena di andare a caccia di notizie («a raccattare cicche», diceva Craxi) in una Montecitorio marginalizzata, ormai, eppure pullulante di voci. Come ai vecchi tempi. Quando nell'imminenza dell'incarico, appunto, in quel clima un po' concitato, intermittente, in quello svolazzar di nomi, di liste, di problemi dell'ultim'ora, polizia e informazione vivevano come un rito sacrificale, preannunciatissimo, che s'alimentava, crisi dopo crisi, dell'incontro collegiale, dell'«impegno preciso» (oggi ribattezzato «garanzia»), del telegramma di protesta, della statistica (Andreotti è la decima volta che prova...), del «via libera dei capicorrente» e perfino di quella specie di scaramanzia pentapartitica per cui, regolarmente, nel mo¬ mento solenne della chiamata al Quirinale, il prescelto si trovava privo di abito scuro o di cravatta, Craxi addirittura in jeans, a dimostrazione del proprio finto disinteresse. E allora - o gran virtù degli scudieri antiqui - c'era sempre un Mastella che gioiosamente rimediava l'abito da cerimonia o un placido Borri che si levava la cravatta e la offriva all'Incaricato Goria, nel caso specifico - con uno di quei gesti che nei codici democristiani valevano come l'oro, e facevano la fortuna delle più brillanti cronache politiche di quegli anni lontani. Così lontani che, rivissuti oggi nella memoria, è come se uscissero dai vecchi telegiornali in bianco e nero. Pensare che Misasi pianse, nel luglio 1987, a vedere Goria convocato al Quirinale. E che De Mita, aprile 1988, afflitto dal mal di testa e dopo aver parlato a lungo con il vecchio papà, accettò con la formula: «Ho ritenuto di non dovermi sottrarre...». Pen- sare che Andreotti, luglio 1989, esperto in depistaggi perfino surreali, aveva appena presentato il Cato Maior De Senectute esprimendo la volontà di lasciare l'Italia per Strasburgo. E tre giorni dopo, aprendo la sua ultima, fin troppo lunga stagione presiden¬ ziale, nulla diceva ai giornalisti, ma ai suoi compagni di partito: «A Palazzo Chigi siamo tutti transitori...». Oggi il Berlusca, il più civile e disponibile candidato che mai cronista politico si sia trovato di fronte - uno, maldestro con il mi¬ crofono e la telecamera, lo ha addirittura consolato, aiutandolo a ripetere la scena - insomma, può anche capitare che dica, il Dottore: «Mi spiace, ma non posso parlare, non intendo avere una over exposition televisiva». E anche qui, anche in questa espressione post-rituale che starebbe per «sovra-esposizione», intuisci la fine di quei tg in bianco e nero. Berlusconi, che molto probabilmente non avrà lacrime da parte di nessuno, attende l'incarico senza tenere conto di alcun capo-corrente; ha il vestito già indosso e la cravatta giusta; né si recherà, come a suo tempo Fanfani, in qualche convento di monaci mariologi dopo essersi paragonato a San Lorenzo sulla graticola. Né dovrà usare quel frasario generico e impersonale, fitto di negazioni, tanto caro al piccolo mondo antico democristiano. Ha cominciato a parlare, piuttosto, con un mimetico plurale majestatis o con una già più bizzarra terza persona singolare con cui l'altro giorno, quasi costretto, s'è trovato a sottolineare la propria diversità da quelli di prima: «Penso che Berlusconi ha dato dimostrazione, con la sua vita, di saperci fare, di saper raggiungere dei risultati che tutti possono considerare positivi». Per il resto, più seduttore che conquistatore, un seduttore lucidissimo e professionale, tecnico della più gagliarda captatio benevolentiae («Vi chiedo scusa, sapete, è la prima volta, io non conosco l'etichetta») è finora riuscito a tenersi in equilibrio tra vecchio e nuovo. Tra il rispetto delle antiche consuetudini parlamentari che non prevedono solo lazzi alla buvette o che la scorsa settimana l'hanno sospinto perfino alla barberia di Montecitorio e la necessità di irradiare quel «sentimento di innovazione» che dovrebbe dare il senso, anche psicologico, di una rottura con il passato. Il punto mediano su cui sembra essersi assestato è racchiuso in una paroletta tanto ambigua e invitante, quanto soggettivamente generica e a suo modo rivoluzionaria: il buonsenso. Berlusconi l'ha invocato, questo buonsenso, una, due, tre, quattro, cinque volte. Sul governo, sulla Fininvest, sul Viminale, su tutto. Ma sono i tempi terribili della politica romana, quelli che potrebbero fargli venire «l'orticaria», a giocare contro di lui. E un po', come è sempre stato, contro il buonsenso. Filippo Ceccarelli

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