Gli 007: processateci a porte chiuse di Sergio Romano

Ieri la prima udienza alla banda del Sisde: in aula Broccoletti, Martucci e Galati, Finocchi ancora latitante Ieri la prima udienza alla banda del Sisde: in aula Broccoletti, Martucci e Galati, Finocchi ancora latitante Gli 007: processateci a porle chiuse Sorrentino, rimborso e patteggiamento respinti ROMA. «Il tribunale», grida la cancelliere. Chi slava seduto si alza, entrano i tre giudici, comincia il processo alla «banda del Sisde». Scattano in piedi anche gli imputati presenti: Maurizio Broccoletti, l'accusato-accusatore, pochi capelli, pelata lucida, baffi e pizzo alla Lenin; Antonio Galati, occhiali da sole nonostante nell'aula non entri un filo di luce che non sia al neon, giacca blu e pantaloni grigi; Matilde Paola Martucci, l'ex «zarina», capelli biondi e vestito immacolato, da prima comunione. Altri tre imputati sono rimasti a casa. Riccardo Malpica, l'ex direttore del Sisde agli arresti domiciliari voleva venire coi propri mezzi, e non gli va di essere accumunato al resto della «banda»; Gerardo Di Pasquale, che non vuole essere ripreso dalle telecamere; Rosa Maria Sorrentino, la quale propone di restituire i soldi, un paio di appartementi e chiudere subito la partita. Il settimo imputato, Michele Finocchi, è latitante da ottobre; aveva detto che al processo si sarebbe costituito, ma in aula ci sono solo i suoi avvocati. Intorno alle ex spie e ai loro legali, bloccati da una barriera di carabinieri, si stringono giornalisti, fotografi e tele-operatori, parenti e curiosi. Ma c'è chi vorrebbe che questa fosse la prima e ultima volta del pubblico in aula. Perché questo, dev'essere un processo a porte chiuse. La richiesta è stata fatta, il tribunale farà sapere domani la sua decisione. La prima ASPETTANDO I TESTIMONI ILLUSTRI ROMA. «Eccolo, guarda, c'è Broccoletti con il pizzetto. La Martucci con la coda di cavallo. E quello? Boh, sarà Galati». Lo scandalo dei fondi neri del Sisde approda in un'aula di tribunale. E così, ieri mattina, felici di avere tra le mani un processo di prima grandezza, si sono precipitati a palazzo di giustizia in tanti: giornalisti, cameramen, fotografi, avvocati. A godersi lo spettacolo c'erano anche, rigorosamente in borghese, i carabinieri del Ros che hanno svolto le indagini sui «cugini» infedeli del Sisde. Mescolati tra i curiosi c'era pure un terzetto di ex spie del servizio segreto civile, ormai fuori dai ranghi. Sono stati «epurati» dall'attuale direttore, il prefetto Sa lazar. E naturalmente hanno il dente avvelenato con tutto e tutti. Ieri sono venuti a vedere «come se la cava il vecchio Broccoletti». Il fatto è che hanno una gran voglia di vestire anche loro i panni dei «grandi accusatori». Prima, però, vogliono vedere come va a finire questo processo. Di normale pubblico, alla fin fine, ce n'era pochino. Qualche sfaccendato. Molta polizia. E naturalmente i familiari. Commossi, «INFORMAZIONE PERVERSA» LA sua mamma dice che sì è tagliata i capelli per non assomigliare troppo a Ornella Muti. Forse la signora Pivetti esagera un po': il viso della Irene ricorda quello dell'attrice più bella d'Italia, ma le doti del nuovo presidente della Camera sono ben altre. Certo è che nei giorni scorsi qualcuno ha cercato di tirare una carognata al numero tre della Repubblica. La stessa identica carognata che, da sempre, colpisce a tradimento le star del cinema e certe giornaliste della tv. Una foto nuda, che sarebbe stata offerta a pagamento ad alcuni settimanali. Una foto che nessuno vedrà mai (i rotocalchi l'hanno rifiutata) di cui la Pivetti nega sdegnata l'esistenza, parlando dell'«ennesimo tentativo di sfruttare un meccanismo perverso di informazione». I particolari in edicola, sul numero di Epoca che uscirà domattina. Un non meglio identificato «personaggio», probabilmente un (ex) amico della Pivetti, si è pre- CONFRONTO IN CARCERE SE culato», e che bisognerà parlare della gestione dei fondi riservati, roba che deve rimanere segreta. I difensori insorgono: «Come si permette - tuona Marazzita, legale di Broccoletti - di dire che c'è stato un peculato? Gli imputati fino a prova contraria sono innocenti. Nessuno qui ha detto che il ministro Mancino, rappresentato dall'avvocato dello Stato, è indagato in un altro procedimento». Di Tarsia s'impenna: «Io non rappresento Mancino, ma l'istituzione». Interviene il presidente: «Avvocato Di Tarsia, le tolgo la parola». E Marazzita gongola: «La ringrazio, presidente, per aver dato una lezione all'avvocato delloStato». Ma il presidente non sta al gioco: «Non ho dato nessuna lezione. Avanti». Il tribunale ascolta altre istanze, e qualche eccezione di nullità avanzata dalle difese. Poi si ritira, le decisioni saranno comunicate domani, quando si comincerà a discutere dell'ammissione dei testimoni, compresa quella del presidente della Repubblica. Per adesso l'udienza è tolta, gli avvocati si mostrano fiduciosi. «Questo è un processo politico, non possiamo farci nulla», dice Marazzita. Gli imputati tacciono. Un cronista avvicina l'ex «zarina»: «Signora Martucci...». Lei si gira, indispettita: «Signora? Avete detto che sono un boss, chiamatemi boss». Giovanni Bianconi A sinistra l'ex «zarina» Matilde Paola Martucci Qui accanto Antonio Galati ex responsabile dei fondi riservati del Sisde WmWmBB IL PASSATO NON PUÒ' TORNARE persi al primo incidente di percorso. I gruppi radicali degli afrikaaner non accetteranno il risultato delle elezioni e cercheranno la rivalsa con azioni di terrorismo. Molti bianchi potrebbero abbandonare il Paese vendendo la casa e l'impresa, creare un clima di pessimismo e sfiducia che avrà pesanti ripercussioni sulla credibilità internazionale dell'economia sudafricana. Non basta. Nonostante gli accordi degli ultimi giorni gli zulù sono una spada di Damocle che penderà per molti anni sulle sorti della Repubblica. Constateremo ben presto, probabilmente, che la minoranza europea ha governato il Sud Africa anche perché l'ostilità fra le etnie nere è spesso più aspra di quella che separava i bianchi dai «colorati» negli anni dell'apartheid. Chi saluta gli avvenimenti sudafricani con entusiasmo si prepari a qualche amara delusione. Dal purgatorio dell'apartheid il Sud Africa rischia di precipitare nell'inferno dell'anarchia, della guerriglia urbana e dei conflitti tribali. Eppure la partita potrebbe concludersi, alla fine, con la vittoria degli ottimisti. Il futuro è incerto, ma il passato racchiude una certezza incontestabile: l'apartheid non funziona. Per quasi mezzo secolo il governo sudafricano ha testardamente cercato di sciogliere i nodi del Paese con una formula che si è rivelata, nella realtà, fallimentare. La strada è costellata di sanguinose, inutili manifestazioni repressive: i 59 dimostranti che caddero sotto il fuoco della polizia a Sharpeville nel 1960, i 575 giovani che morirono dopo i moti di Soweto nel 1976, le repressioni del Val Triangle dopo le fiammate di protesta che bruciarono le «favelas» meridionali di Johannesburg, il carcere per migliaia di militanti, i 27 anni di Mandela nelle prigioni della Repubblica, le incursioni al di là della frontiera contro i movimenti di liberazione nei territori vicini. Soltanto le frange più radicali e intolleranti della popolazione bianca possono ostinarsi a ignorare le lezioni della storia sudafricana. La maggioranza sa che l'apartheid è una strada senza uscita e che la politica di De Klerk non ha alternative. Non per idealismo i bianchi si sono convertiti all'idea di un Sud Africa multirazziale: all'origine della svolta vi è la constatazione che la vecchia politica, coerentemente perseguita sino alle sue più estreme conseguenze, avrebbe paralizzato e distrutto il Paese che essi avevano creato. Questo sobrio realismo dei vecchi padroni gioverà alla pace più di qualsiasi magniloquente teoria umanitaria. Speriamo che i neri diano prova di altrettanto realismo e si rendano conto che vi sono circostanze in cui non basta, per governare un Paese, avere la maggioranza. Si guardino attorno: constateranno che sulla mappa del continente africano, dal Sudan al Rwanda, stanno bruciando quasi tutti i Paesi che trent'anni fa sembravano felicemente avviati sulla strada dell'indipendenza. Come il fallimento dell'apartheid ha aperto gli occhi dei «padroni bianchi», così il fallimento della decolonizzazione può essere una salutare lezione per i loro «servitori neri». Apparentemente utopistico, il programma costituzionale di De Klerk e Mandela potrebbe rivelarsi la più realistica e assennata delle soluzioni possibili. Sergio Romano

Luoghi citati: Italia, Mandela, Roma, Sud Africa, Sudan