Aldo dice 26 x 1 liberate Torino

Aldo dice 26 x 1, liberate Torino I protagonisti di allora raccontano come la città visse le giornate decisive dell'aprile '45 Aldo dice 26 x 1, liberate Torino «Così noi partigiani cacciammo i tedeschi» «Nel mio comando di Giaveno ricevetti l'ordine di marciare su Torino il 25 aprile del 1945 da una staffetta del maggiore Tonino Guermani, che comandava la IV zona partigiana. Il messaggio in codice diceva "Aldo dice 26 x 1": l'attacco doveva partire all'una di notte del 26 aprile. In realtà ci muovemmo con i miei 1200 uomini nel pomeriggio, utilizzando una lunga fila del trenino della linea che allora collegava Giaveno con Torino». I ricordi di Giulio Nicoletta, 73 anni, comandante allora ventiquattrenne della formazione autonoma di partigiani Sergio De Vitis, che operava in Val Sangone, sono ancora lucidi nonostante sia passato quasi mezzo secolo. Nicoletta, medaglia d'argento al valor militare, ex dirigente della Ceat in pensione, è nato a Crotone, in Calabria, ma Giaveno, dove ha passato i lunghi mesi della lotta di Liberazione, è diventata la sua terra d'adozione. E' uno degli ufficiali che l'8 settembre scelsero la montagna per combattere contro i tedeschi: era sottotenente carrista a Vercelli. La battaglia fu dura, non priva di colpi di scena, e un cippo in piazza Santa Rita ricorda i cinque uomini, tra i quali un cecoslovacco che aveva disertato dalla Wehrmacht, persi da Nicoletta nel primo scontro per le vie della città. «Dopo una tappa a Beinasco, che liberammo il 26, scendemmo lungo corso Orbassano e incontrammo le prime resistenze naziste davanti alla chiesa di Santa Rita. Morirono cinque miei ragazzi, ma respingemmo la loro colonna e riuscimmo a insediarci nella caserma Monte Grappa». Incontriamo l'ex comandante partigiano nella sua casa. Mentre racconta quelle giornate, Nicoletta si alza e dal tinello ci indica la «sua» caserma: abita in corso IV Novembre, proprio di fronte a quel primo rifugio dei suoi uomini. «Le vivandiere della Monte Grappa, una mamma con la figlia, spaventatissime, ci chiesero di poter restare: erano le stesse che prima cucinavano per gli uomini della X Mas della Repubblica di Salò». Torino venne liberata dagli operai che avevano occupato le fabbriche e dalle formazioni di autonomi, garibaldini, giellini e socialisti delle Matteotti. Quando arrivarono gli alleati, il 3 maggio, la trovarono «ordinata e tranquilla», come ricorda un rapporto del colonnello inglese Hewitt. Spiega lo storico Claudio Dellavalle, docente a Magistero, che all'argomento ha dedicato numerosi studi: «Parteciparono alle azioni 1895 uomini armati delle Sap, soprattutto organizzazioni di fabbrica, oltre ad altri 7130 di "secondo impiego". Dalle colline scesero 7400 uomini più altri 3900 di riserva: in tutto 20 mila persone male armate, ma soltanto 10 mila erano operative». L'idea di «far da soli» in tutta l'alta Italia costituiva una precisa decisione politica dei Comitati di liberazione nazionale, nei quali si erano costituiti i partiti antifascisti. Il segretario del Cln di Torino città, che nel suo appartamento di corso Duca degli Abruzzi conserva ancora tutti i verbali degli incontri tra l'I 1 febbraio '45 e la Liberazione, è il docente di storia Giorgio Vaccarino, 78 anni, attuale presidente dell'Istituto storico della Resistenza. «Il nostro compito - racconta il prof. Vaccarino, allora del partito d'azione - era quello di colmare il vuoto di potere. Non avevamo poteri militari, affidati al Comando piazza, ma dovevamo preoccuparci di organizzare i servizi: distribuzione dei generi di consumo, sanità e igiene, trasporti». Il Cln torinese - composto da Ludovico Geymonat (pei), Fausto Penati (partito d'azione), Mario Passoni (socialista), Giovanni Bovetti (de) e Guido Verzone (pli) - si ritrovò in seduta permanente in via Saccarelli, presso un asilo, a partire dalla notte del 27 aprile. Era in stretto contatto con il Cln regionale (insediatosi presso la conceria Fiorio di via Durandi), presieduto dal liberale Franco Antonicelli, del quale facevano parte personalità come Alessandro Galante Garrone (per il partito d'azione), il socialista Rodolfo Morandi, il comunista Giorgio Amendola (fu a Torino durante l'insur- rezione) e il democristiano Andrea Guglielminetti. «I giorni dell'insurrezione furono di grande, comprensibile, confusione - racconta Giorgio Vaccarino - ma poi dal 29 tutto tornò a funzionare. Si lavorava in condizioni precarie: ricordo che il Cln si riunì, come giunta cittadina provvisoria, nella stanza accanto alla Sala Rossa del Comune. Mentre stilavo il verbale vedevo i cecchini che ci sparavano addosso dalle soffitte di piazza Palazzo di Città, con un drappello di vigili urbani sotto i portici che rispondeva al fuoco». Già, i cecchini. Almeno trecento fra civili e partigiani furono uccisi in quei giorni. E ogni volta le squadre partigiane intervenivano per stanarli e poi li fuci¬ lavano. «Ho netto il ricordo di quei volti terrei stretti tra due dei nostri uomini» aggiunge Vaccarino. E le epurazioni? Secondo i dati emersi in questi giorni da uno studio del Viminale commissionato dall'allora presidente del Consiglio De Gasperi, le esecuzioni di fascisti in città furono 1138. Torino ha il maggior numero di fucilati, secondo i dati del '46. Perché? Secondo lo storico Dellavalle, perché qui vi era una forte presenza di Gap e Sap nelle fabbriche, dove funzionarono i «tribunali del popolo». Dice il comandante Nicoletta: «Ci furono le fucilazioni perché gli animi erano esacerbati dal massacro di Grugliasco, dove i tedeschi uccisero 66 civili. La responsabilità morale dell'odio di quei giorni spetta ai nazisti. Purtroppo vi furono anche vendette personali». Tutto era difficile, in quelle ore, anche i collegamenti. Impegnata a far da spola tra piazza Castello e una paesino nell'Arnese, dove c'era la radio della missione alleata paracadutata in Piemonte, si prodigava una staffetta partigiana di Cuneo, allora poco più che ventenne. Era Lucia Testori. «Portai io a Torino la bandiera tricolore racconta la signora Testori - che mi aveva consegnato da Roma il ministro Medici Tornaquinci: fu il vessillo decorato dalla medaglia d'oro che sfilò in testa al corteo della liberazione in via Roma il 6 maggio, nascosto per mesi nella conceria Fiorio. Spesso mi recavo in missione a Milano per portare i dispacci del Cln piemontese a quello nazionale. Erano viaggi avventurosi, passaggi sull'autostrada con camion di ogni tipo, anche tedeschi. Per qualche tempo fui più comoda. Mi trovavo quando era ancora buio nel garage di via Bertola dove allora aveva sede "La Stampa". Là incontravo un autista, del quale conoscevo soltanto il nome, Carlo, di qualche anno più vecchio di me, piccolo e bruno. Non ci parlavamo. Mi faceva sdraiare sui giornali nel furgone e mi ritrovavo a Milano». Tutto questo fu l'insurrezione: piccoli e grandi eroismi per riconquistare la libertà. Vi fu anche la paura di essere bombardati e che Torino subisse un martirio come Varsavia o Stalingrado, quando il comando tedesco della 34a divisione corazzata e della 5a Alpenjaeger - almeno 20 mila uomini con i panzer Tigre e artiglieria pesante - chiese di poter transitare per la città. Il Cln, avvisato da una mediazione del cardinal Fossati, oppose un netto rifiuto. Fortunatamente le colonne naziste evitarono lo scontro e passarono nella periferia Nord, per arrendersi agli alleati a Santhià e Ivrea. Soltanto quando ci fu la certezza che la guerra era davvero finita, come ricorda Giorgio Vaccarino, «tutti ballarono e si abbracciarono per le strade». Gigi Padovani Filma le fabbriche poi i reparti dalle valli comandante partigiano della Val Sangone Giulio Nicoletta Due partigiani si abbracciano in piazza Castello (foto grande, dal libro «La liberazione di Torino» Sperling & Kupfer) e lo storico Giorgio Vaccarino, segretario del Cln cittadino