Il treno in una valigia di Igor Man

Il treno in una valigia In un libro gli incanti delle ferrovie. Due volti dei binari visti da Igor Man Il treno in una valigia La nobile russa e i suoi rimpianti /-n IE è vero che il passato è un presente ch'è già futuro, soltanto grazie al il treno sarà possibile SJj viaggiare nella memoria. Quand'ero bambino, mia zia Nadia, detta Diduska, mi portava spesso «a vedere i treni». La stazione di Catania era una non troppo grande terrazza sul mare, coi binari che correvano sulla lava, nera contro il mare di cobalto. Quando, d'inverno, lo Jonio s'infuriava ondate ciclopiche, regali come lenzuola, s'avventavano sugli scogli tentando invano di scardinare le rotaie; sicché accadeva che sui finestrini del direttissimo Catania - R. Calabria - Napoli - Roma rimanessero coriandoli d'acqua salmastra. Mio nonno materno era un nobile russo di medio lignaggio, svizzero-tedesco per parte di madre. S'era laureato in ingegneria in Germania, specializzandosi successivamente in Francia e in Gran Bretagna. Quando i bolscevichi presero il potere lui, giovane «vice», dirigeva una fabbrica d'armi dello Zar. Lo salvarono dalla Ghepeu i suoi operai ma si pose subito il problema di espatriare. Lo risolse il passaporto svizzero del quale disponeva. Mio nonno Edoardo aveva 45 anni, era vedovo da due, viveva a Mosca in una bella grande casa (poi trasformata da Stalin in un pensionato per gli eroi di guerra) con tre figlie: Frida, Nadia, Vera. Frida (mia madre) e Nadia erano ad Odessa e guadagnarono avventurosamente la Turchia da dove raggiunsero la Francia viaggiando da Costantinopoli a Parigi sull'Orient-Express. Un viaggio «vergognosamente lussuoso», soleva ripetere mia madre che, in quel tempo, lei, giovine menscevica (e, pertanto, un po' la pecora nera della famiglia) non riusciva a darsi pace del viaggio massacrante subito da suo padre, da sua sorella Vera: quarantacinque giorni su di un treno-tradotta della Croce Rossa Internazionale. A Parigi, in uno sconfinato appartamento al piano nobile di Rue Tremoille 18, nell'Ottavo Arrondissement, tra un corridoio e l'altro esiste un armadione coi battenti di noce. Sul ripiano più alto, accessibile grazie a una scaletta di legno a forbice, riposa una piccola valigia di cuoio. Settanta x cinquanta. La piccola valigia se ne sta lassù da un giorno imprecisato del 1917. Quella valigia custodì le poche cose di una giovinetta in fuga dalla sua patria verso l'esilio, fece da cuscino e da scrittoio, da tavolino su cui poggiare poco e raro cibo durante lunghi, interminabili 45 giorni scanditi dal silenzio carico di parole dei binari morti e dal tatantatà delle ruote in movimento attraverso un'Europa dolente per le troppe ferite. Mia zia Vera, detta Veruka, è oramai una vecchia signora senza età che parla una neolingua fatta di russo, francese, tedesco, italiano, spagnolo. Tutte le (rare) volte che vado a tro¬ varla, prega una delle persone che l'accudiscono di portarle la valigia. La posano sulle sue fragili ginocchia e lei con dita leggere, i polpastrelli diafani come biglie di avorio logorate dall'uso, la carezza. La valigia, dico. E, poi, quasi cantasse una nenia zingaresca mi parla di quel viaggio. Ogni volta spunta un nuovo personaggio: il pianista che muore d'occlusione intestinale perché il «decoro» gli impediva di liberarsi davanti a tutti. Il professore di lingue che legge il Don Chisciotte da un volume immaginario che fingeva di tenere nelle mani, in verità recitandolo a memoria. Zia Nadia e Zia Vera si concedevano, sino a qualche anno fa, lunghe vacanze, anche in Italia. Non hanno mai preso l'aereo. Può essere utile per spostarsi rapidamente, dicevano, l'aereo, non certo per viaggiare. Ed era l'idea del viaggio fuso col treno, certamente, del viaggio come impossessamento del luogo e dello spazio; l'idea del treno sicuro, forte traghettatore dalla routine alla scoperta a spingere Diduska ad andare con suo nipote «a vedere i treni». Di quelle mattinate asciutte di primavera siciliana conservo perfetto il ricordo. Una mistura struggente di suoni e odori. Il campanello, una minuscola ugola che trema nella conchiglia di ottone per annunciare un treno che non arriva mai - la sauna veloce del vapore sbuffato dall'immensa locomotiva nera, fregiata di rosso, col ferroviere con gli occhiali sulla fronte che sorride alla signora bionda col bambino vestito alla marinara - l'odore misterioso, denso, del carbone sfumato nello zolfo - il sapore delle arance appena sbucciate dei bicchieroni di acqua e zammù (anice) - il sapore del gelato di cedro della Premiata Pasticceria Svizzera Fratelli Caviezel, in via Etnea.[...] Fantascienza giapponese? E' il primo treno superveloce, questo «Tokyo-Osaka», che prendo. E' come viaggiare in un siluro che fora lo spazio. Tra dieci anni, mi dice l'amico che m'accompagna, ogni rumore sarà eliminato. Eravamo nel 1960 e quel «rumore» era un fruscio robusto, nulla di più. Epperò quel mio amico aveva ragione: oggi i treni nipponici ad alta velocità sono pressoché silenziosi: s'avverte la penetrazione direi violenta dello spazio ma s'è perduto (o eliminato) il taratatà delle ruote sui binari. Oggi, come la prima volta, ho notato che sui vassoi che servono nella seconda classe troneggia una teiera di coccio. I giapponesi «dimenticano, così, la velocità sovrumana, perdono ogni apprensione, si sentono, grazie alla teiera di coccio, a casa propria», mi disse allora l'accompagnatore amico. Ecco, quando in Italia, finalmente, avremo l'alta velocità cosiddetta, penso che sarebbe utile e bello mettere nel vassoio del brunch una piccola caffettiera. Napolitana o magari moka. Per «sentirsi») in Italia. Noi e i viaggiatori stranieri. Igor Man «Sul Tokyo-Osaka come su un siluro» Sta uscendo In treno verso l'Europa, edito da Peliti Associati: 125 fotografìe di maestri internazionali come Basilico, Cartier-Bresson, Doisneau, Salgado, Scianna, Sellerio, testi di Igor Man, Diego Mormorio, Aldo Rossi. Anticipiamo due brani di Igor Man. A sinistra: la stazione di Colonia in un'immagine del '62 di lan Berry. Sopra: ragazze alla Toruaine in uno scatto di Sieff del 78