Studia e làureati sarai doktoro

Simone: «E' solo una simpatica bizzarria». De Mauro: «Ma può essere utile» il caso. Istituita a Torino la prima cattedra universitaria di Esperanto Studia e laureati, sarai doktoro Una lingua inventata «a tavolino» piace ai radicali ma anche al Papa ELICIAN Paskon en Kristo resurektinta»: fra le 58 lingue con cui il Papa ha rivolto ai fedeli di tutto il mondo gli auguri pasquali, lo scorso 3 aprile, per la prima volta c'era anche l'esperanto. A distanza di poche settimane i seguaci italiani della «lingua internazionale» messa a punto nel 1887 dal medico polacco Lejzer Ludwik Zamenhof (Doktoro Esperanto, il «dottore speranzoso») hanno un nuovo motivo per esultare: con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale delle «modificazioni allo statuto dell'Università» di Torino - stabilite per decreto rettorale e approvate dalla Commissione universitartia nazionale - per la prima volta in un ateneo italiano viene introdotto un corso di Interlinguistica e Esperantologia. A partire dal prossimo anno accademico, le lezioni saranno tenute da Fabrizio Pennacchietti, professore di Filologia semitica e ferrato esperantista, che si è valso della facoltà di avocare a sé l'insegnamento, a zero lire, senza attendere un concorso per accendere la cattedra. «La lingua verde trova casa all'università», annuncia con tripudio la «Esperanto radikalo asocio» (Era), l'associazione radicale nata sette anni fa in concomitanza con la trasnazionalizzazione del partito. La chiamano «lingua verde» perché è «ecologica», non pretende di imporre il proprio dominio sulle altre, distruggendo la specificità delle relative culture, come fa l'inglese. «E' da più di quarant'anni che in Italia non ci si occupava a livello ufficiale dell'esperanto - spiega il segretario dell'Era, Giorgio Pagano -: l'ultima volta fu nel '52 con una circolare del ministro della Pubblica Istruzione Segni, in cui però non si diceva praticamente nulla. Da allora c'è stata una campagna denigratoria inimmaginabile: tutti pretendono di avere un'opinione, non conoscendone assolutamente nulla. In particolare i linguisti». Ora di colpo le cose stanno cambiando: tanto è vero che a dicembre la «Commissione sulla lingua internazionale (detta esperanto)» insediata presso il Ministero della Pubblica Istruzione ha approvato una relazione finale in cui si riconosce fra l'altro che l'esperanto «educa alla costruzione della pace», perché in un'epoca di nazionalismi risorgenti concretizza «la concezione di appartenza all'unica famiglia umana»; «consente relazioni transnazionali, culturali e commerciali, in una lingua comune, senza discriminazioni»; «evita il predominio di una o due lingue "maggiori"»; «arricchisce la riflessione metalinguistica anche sulla lingua materna». Di conseguenza se ne raccomanda l'insegnamento fin dalle elementari, accanto a inglese, francese, tedesco e spagnolo. Quanti meriti per una lingua artifiale: possibile? «L'esperanto - sostiene il professor Pennacchietti - facilita la comunicazione fra i popoli, perché scalza quel senso di inferiorità che ci coglie inevitabilmente quando ci esprimiamo in una lingua etnica con chi la conosce meglio di noi, in quanto è la sua madrelingua. E poi, l'uso dell'esperanto come lingua comune impedisce quel fenomeno ben noto fra le lingue etniche che è la glottofagia, ossia il cannibalismo linguistico delle nazioni più forti. Per questo lo considero una cura contro l'imperialismo linguistico-culturale». Tanto è vero che in anni passati l'esperanto era particolarmente coltivato nei Paesi socialisti, Cina e Cuba soprattutto, in funzione anti-americana. Ma non tutti sono d'accordo. Il linguista Raffaele Simone, implacabile fustigatore del nostro sistema universitario, inorridisce all'idea che l'invenzione di Zamenhof diventi materia di insegnamento. «Non vedo nessuna utilità. Quella degli esperantisti mi sembra un'utopia commovente, una simpatica bizzarria, non priva però di una vena di follia. In quanto artificiale, l'esperanto non ha nessuno dei requisiti su cui storicamente una lingua può contare per diffondersi: infatti, da più di un secolo, non funziona. Come lingua ausiliare abbia¬ mo già l'inglese, ci piaccia o no: tanto vale studiarlo». Già, ma come la mettiamo con l'imperialismo culturale? «Perché, forse l'esperanto è libertario? E' una lingua finta, fissa, che si sottrae all'inflenza della massa parlante ed è gestita da commissioni che decidono quali parole accettare e quali no: non è libera, è autoritaria. E poi, a quanti litigi ha dato luogo fra i suoi adepti, fin dalle origini: non è neppure una lingua troppo pacifista...». Tullio De Mauro è meno drastico: «L'esperanto all'università, anche in Italia? Uwiva. Può essere molto utile come lingua ausiliare, non nazionale. Certo, come ausiliare c'è già l'inglese, che funziona benissimo ed è parlato come prima o seconda lingua da più di un miliardo e mezzo di persone in tutto il mondo. Però nell'ambito dell'Unione Europea c'è l'esigenza di non favorire nessuno, così tutti gli atti ufficiali devono essere tradotti nelle lingue dei vari Stati che ne fanno parte. Pensiamo che risparmio rappresenterebbe poter disporre di una lingua comune, che non provochi problemi politici. Il guaio è che molti esperantisti vorrebbero farne qualche cosa di più: una lingua etnica, con propri testi letterari». Ma se diventasse di uso comune, l'esperanto perderebbe quella fissità che è la sua caratteristica precipua, e che ne garantisce l'utilità come parlata ausiliare. Conclude De Mauro: «Assisteremmo al prevalere dell'anomalia, che guida la dinamica di tutte le lingue vive, contro l'analogia, tipica delle sole lingue artificiali. Allora saremmo daccapo: bisognerebbe inventare un altro esperanto?». Maurizio Assalto Simone: «E' solo una simpatica bizzarria». De Mauro: «Ma può essere utile» Lejzer Ludwik Zamenhof, medico polacco che nel 1887 inventò l'esperanto. Nell'immagine grande, la torre di Babele in un dipinto di Brueghel li professor Tullio De Mauro è possibilista sull'utilità dell'esperanto: «A patto che resti una lingua ausiliare»

Luoghi citati: Cina, Cuba, Italia, Torino