Addio Dick il baro sei stato grande di Vittorio Zucconi

Addio Pick il baro/ sei stato grande Addio Pick il baro/ sei stato grande Amici e nemici riabilitano il protagonista del Watergate IL CATTIVO DEGLI ANNI SESSANTA WASHINGTON IXON mi confessò che un mese dopo le sue dimissioni, nella casa sulla spiaggia della California a San Clemente, ebbe la tentazione fortissima di mettersi una bottiglia di Chivas sotto il braccio e camminare diritto verso l'Oceano Pacifico, per non tornare mai più indietro» mormora Ronald Ziegler, che fu il suo addetto stampa e il suo confidente alla Casa Bianca. «Non lo fece pensando alle figlie, a Tricia, a Julie. Era un uomo distrutto. Non mi par vero che abbia saputo sopravvivere e che sia morto circondato dal rispetto della nazione». Ora che Richard Nixon non è più il 37° Presidente degli Stati Uniti, «l'uomo che l'America era felice di odiare», «Dicky il sudicio», il «disonesto dal quale non avreste mai comperato un'auto usata», ma è soltanto un corpo senza vita incipriato dai becchini in una camera mortuaria del New Jersey in attesa del trasporto in California, l'America scopre in se stessa un amore insospettato, esterna una nostalgia colorata di rimorso per lui. Ex Presidenti ed ex avversari di selvaggi scontri politici, giornalisti che lo avevano crocefisso con le loro penne ed elettori che avrebbero votato per il diavolo piuttosto che per lui, oggi inondano stazioni televisive e giornali con orazioni funebri degne della morte di Cesare e piccole rivelazioni. Ascoltiamo per esempio George McGovern, proprio l'avversario per la Casa Bianca nel 1972 contro il quale fu lanciato il raid notturno nel juartier generale democratico del Watergate: «L'ho odiato, l'ho disprezzato, l'ho sempre giudicato un falso e un infido. Poi ho imparato a conoscerlo meglio dopo il Watergate e sono rimasto stupefatto davanti al cambiamento in meglio che aveva fatto. Il marchio di tutti i grandi uomini non è di essere buoni o virtuosi, ma è la loro capacità di continuare a migliorarsi, fino al giorno in cui muoiono». Generosità post-mortem, ammirazione riluttante, riconoscimento obiettivo di una straordinaria capacità di comprensione del mondo diplomatico, si intrecciano in un lungo addio nostalgico che sbalordisce chi di noi ricorda il linciaggio pubblico del 1973 e 1974, quando l'America costruì giorno per giorno, implacabilmente, il rogo sul quale il politico Nixon fu bruciato vivo. I suoi successori sulla poltrona dello Studio Ovale sono unanimi nel riconoscerne la grandezza in politica estera. Gerald Ford, che gli diede la «grazia» mettendolo al riparo da ogni incriminazione futura in cambio delle dimissioni: «E' stato il più grande cervello di politica estera che l'America abbia avuto». Jimmy Carter, che sconfisse Ford salendo sulla piattaforma della «nuova moralità» post-nixoniana: «Senza di lui, la sicurezza e la pace del mondo sarebbero state infinitamente più difficili». Ronald Reagan, cauto, ma lusinghiero: «Era un uomo complesso e duro di carattere, ma la sua eredità continuerà a guidare le forze della democrazia, per sempre. Grazie a lui, il mondo è un poco più sicuro». George Bush: «Il Watergate può avere appannato i risultati ottenuti, ma Nixon sarà ricordato per gli straordinari successi conseguiti in politica estera, dall'apertura alla Cina fino alla stabilizzazione della Guerra Fredda con l'Urss». Persino i Clinton, figli di quegli Anni 60 e di quegli ambienti studenteschi nei quali Nixon era visto semplicemente come «The Evil One», il Maligno, hanno dovuto salutare la morte con parole di elogio: «Il nostro Paese ha un debito di gratitudine eterno per la dedizione e l'intelligenza di questo Presidente. Hillary e io abbiamo parlato più volte con lui negli ultimi mesi ricevendone sempre consigli preziosi e intelli- genti». Nessuno, in quelle conversazioni, ricordò certamente mai il fatto che proprio Hillary Rodham Clinton, la first lady di oggi, era allora, nel 1974, una delle avvocate che lavoravano con più accanimento nella commissione parlamentare per l'impeachment, l'incriminazione formale di Nixon, e non è certo lei, l'astuta Hillary, a nuotare contro la corrente della nostalgia: «Penso a Nixon con il dolore di una figlia che pensa al padre perduto. Lo so, perché di recente ho perso proprio mio padre che aveva la sua stessa età, 81 anni». Non più avvocata, dunque, ma solo figlia. Se qualcuno avesse immaginato, nella primavera del 1974, che 20 anni dopo l'America avrebbe salutato «Tricky Dicky», Nixon il baro, come un eroe, sarebbe stato preso per un folle. Ma nel vecchio moschettiere della lotta politica riabilitato «20 anni dopo», l'America aveva visto, dopo le dimissioni, l'uomo, l'anima dietro la maschera. In carriera, Nixon era un assoluto «SOB», un gran figlio di buona mamma, come si dice nello slang americano. Un «paranoico che vedeva nemici dappertutto» come dice Kissinger, una persona incapace di «dimenticare e meno ancora perdonare la minima sconfitta, il minimo sgarbo». Nonostante la sua fama di uomo di pace, il suo più grande rimpianto, ha rivelato ieri il generale Alexander Haig, uno dei sospetti informatori, «gole profonde», dei giornali, «fu quello di non avere picchiato duro sul Nord Vietnam e su Hanoi. Nixon non si perdonò mai di non avere fatto a pezzi i nordvietnamiti coi B-52», dice Haig. Nel contatto personale era ruvido, arrogante, sgradevole, sboccato come un marinaio. «Voleva molto bene alla moglie Pat e alle due ragazze, Julia e Tricia» come oggi ci racconta un'amica intima e segretaria personale di Pat Nixon, Juleen McCain, ma non lo esternava mai. La moglie visse con lui, nella Casa Bianca assediata del 73-'74, come un'estranea, dormendo in camere separate, inascoltata, ignorata, trascorrendo giorni interi senza che il marito le rivolgesse la parola. Per mesi e mesi, incarcerato nella sua paranoia, Riccardo il Re Pazzo abbracciava la bottiglia di Chivas, non la moglie. «Lo stress, poverino, lo aveva reso distante, incapace di amare» sussurra la McCain, oggi un'anziana, distinta signora. Impotente, insomma, come dicevano i pettegolezzi? «Preferisco dire incapace di amare». Il perdono dell'opinione pubblica sembrava impossibile per un uomo che aveva calpestato e triturato decine di oppositori, mentito, imbrogliato per vincere e distrutto la vita di persone innocenti per farsi bello, come fu il caso di Alger Hiss, il funzionario del Dipartimento di Stato che Nixon accusò ingiustamente di spionaggio per l'Urss negli anni del maccartismo. E Hiss è uno dei pochi che oggi non si unisca al coro sentimentale del rimpianto: «Nixon era un cinico che per ambizione politica portò l'America nella più grave crisi costituzionale del XX secolo». Ma l'assoluzione è arrivata, corale, commossa. E se si deve mettere a fuoco il momento della riconciliazione fra gli americani e «Riccardo il Baro», forse il momento è venuto 10 mesi or sono, nell'estate del 1993, quando Nixon accompagnò nella tomba Pat, la moglie. Davanti alla Biblioteca Nixon a Yorba Linda, il suo paese natale nel Sud della California, dove Pat e ora lui stesso saranno sepolti insieme, l'infido venditore di bugie del 1974 si sciolse in un pianto dirotto, incontrollabile, con il fazzoletto sugli occhi per non farsi vedere dai 5 nipotini che in casa lo chiamavano «Bah». «E' stata la morte della moglie a togliergli la voglia di vivere», sospetta il generale Haig. Ha ragione Kissinger quando dice, oggi, che nella tomba della Biblioteca Nixon, scenderà mercoledì prossimo «un pezzo essenziale della pace che ha protetto il mondo dall'olocausto nucleare». Ma l'America che oggi saluta commossa il vecchio nemico non ha perdonato il Presidente, ha finalmente perdonato Dick. Requiem per un gran figlio di buona mamma, morto da brav'uomo. Vittorio Zucconi II Presidente annuncia: «Mi dimetto»