la sfida tra l'uomo e il computer di Paolo Guzzanti

la sfida tra l'uomo e il computer la sfida tra l'uomo e il computer Le parole dell'avvocato egli «effetti speciali» del pm L'ARRINGA IN AULA MILANO ON c'è niente da fare: le slides, cioè le proiezioni delle tabelle, aiutano e come. Aiutano a tener desta l'attenzione, se non altro. Il processo Cusani è double-face: c'è un processo tecnico, giuridico, tutto fatti e articoli di codice; e ce n'è uno per il popolo, i telespettatori e anche i giornalisti. Di Pietro, l'astuto e popolare Di Pietro, conosce più di chiunque altro la differenza che passa tra informare e comunicare. Sono due faccende diverse: informare vuol dire dare le notizie, nude e crude, anche scostanti e noiose; comunicare vuol dire colpire, emozionare, accendere la fantasia, risvegliare l'attenzione. E in questa seconda attività Di Pietro è ancora il campione dei pesi massimi. Ma il bravissimo, elegante, colto e intelligente Giuliano Spazzali non è un pivello neppure lui in fatto di tecnica della comunicazione e ieri ne ha dato ampia prova. Mentre svolgeva la sua arringa (la prima parte, il resto lo ascolteremo martedì) guardavo il mio taccuino e quello dei colleghi. La penna correva sulla pagina - deplorevole ma vero - soltanto quando l'arringatore svolgeva un'opera seduttiva sull'ascolto. Il resto, la materia del processo propriamente detto, era dannatamente appropriata, ma di una noia mortale. Se avesse avuto anche lui qualche gadget, una videata, una foto, un grafico, anche una foto di famiglia (lo ha detto lui in un'intervista molto ironica) sarebbe stato meglio. Del resto la cosa non è sfuggita alla difesa. Quando l'avvocato Plastina, braccio destro di Spazzali, ha detto «Peccato che non abbiamo anche noi delle slides», Di Pietro è partito con uno smash (l'unica sua interruzione) dicendo acidamente: «Sempre karaoke è». Restituiva così la cortesia a Spazzali che aveva chiamato appunto «karaoke» la visualizzazione su schermo delle parole. Come si vede, sentimenti e risentimenti non mancano. E nella resa finale dei conti bisogna mettere di sicuro il groviglio di tensioni, simpatie e antipatie che sette mesi di processo hanno messo insieme, come in qualsiasi scolaresca, ufficio, redazione o fabbrica. E per fortuna. In mancanza di questi umori il processo, questo processo, si sarebbe ridotto a una sarabanda di ricevute a tonnellate, di bonifici e trasferimenti bancari a milioni, fotocopie a miliardi, tante quasi quanto le lire in ballo. Ma poi, in definitiva, quel che ha fatto titolo in questi mesi non soltanto sui giornali, ma negli ascolti televisivi e cioè nel cuore della gente, sono state le emozioni, gli sdegni, le stanchezze, gli scontri, le debolezze, i momenti di umanità. E naturalmente le «L'impuda solo, di una lnon ha in grandiose passerelle dei potenti decaduti, presentati uno dopo l'altro come belve prigioniere del domatore Di Pietro: un colpo di frusta, un salto nel cerchio di fuoco, un bocconcino di consolazione e una pedata nel sedere. Che le cose stiano così lo sa perfettamente anche l'altro gran gentiluomo di quest'aula già immersa in un torpido calore primaverile: e cioè il presidente Tarantola che, se non andiamo errati, si laureò con una tesi molto suggestiva su «Sentimenti e sentenze». Cioè proprio sul ruolo del fattore umano: tema così caro a Graham Greene e che dimostra, se mai ve ne fosse bisogno, che nessun servizio segreto, nessuna confraternita di massoni, nessuna accolita di supermalfattori, nessuna carboneria, Spectre, lobby, politburò, cupola, direzione strategica, circolo degli scacchi o riunione di condominio può contare sull'invulnerabilità che prima o poi, per legge di natura, finisce a pezzi. Finisce a pezzi perché c'è chi si uccide con una revolverata a una tempia come Gardini, o col sacchetto di plastica come Cagliari, o piange di rabbia nel crollo fisico come Cusani. O che, come Tarantola, si fa sorprendere in una smorfia di disappunto. O perché ^««MàMMK»»»™»»™.^ Di Pietro viene raccontato dalla telecamera mentre gongola per il solo fatto che Spazzali lo nomini, lo citi, gli si rivolga, a lui che è prima di tut- mimmmimmmm'™ *° Un uorno solo, affaticato, temuto ma trattato come una roccia scomoda e una testa matta. E Di Pietro che è in perenne conflitto con il suo naso, che tormenta in spregio a ogni eleganza. O i cronisti che cedono alla noia ipnotica creando tappezzerie di figure stravaccate. E poi il fattore umano che irrompe per le impreviste ma notissime effrazioni prodotte dal sesso, dalla gelosia, dalla semplice simpatia e antipatia umana: non che dal processo Cusani emerga anche un tal repertorio delle umane debolezze, ma certamente domina un complesso di fattori comunicativi che rientrano comunque nella categoria dell'umano, cioè in quella categoria che colpisce e influisce, mobilita simpatie destinate, per vie traverse di cui non si trova traccia sui verbali, per dirla con l'indagine del giovane Tarantola, a diventare anche sentenze. La tesi difensiva di Spazzali è apparsa subito chiarissima nel suo impianto: Cusani è un professionista singolo e indipendente da qualsiasi impresa e da qualsiasi responsabilità aziendale, che, in proprio, svolgeva certi ruoli eterni che fanno parte della natura del sistema, ovvero delle cose. E i ruoli erano tutti quelli che riguardavano il rapporto fra politici e azienda. Quei ruoli, ha tato agiva all'interno ogica che ventato lui» ricordato Spazzali, non li ha inventati lui, Cusani. Fanno parte della storia e della geografia del nostro Paese. Anzi, Spazzali che spruzza le sue arringhe con un pizzico di ideologia di sinistra del buon tempo antico, suggerisce che il difetto stia tutto nel capitalismo perverso in sé, colpevole di comportamenti perversi, ma inverati dalla Storia: e cioè le relazioni d'affari come relazioni per loro natura inclini all'immoralità. Dunque, che cosa si vuole da quest'uomo? Metterlo in croce, perché? Forse perché ha fatto esattamente quello che, se non l'avesse fatto lui, avrebbe fatto comunque qualcun altro? Ridi¬ colo. Cusani risponde in proprio di atti individuali, ma all'interno di una logica obbligata, che non è la sua, che ha altri attori e altre cause, altre verità. E la logica è quella che ha sempre spinto grandi e strapotenti aziende come la Montedison o come il gruppo Ferruzzi a finanziare persone potenti e influenti. Attenzione: è questo il punto, dice Spazzali. Si tratta di un rapporto da uomo a uomo. Non da azienda di capitale a partito. Alla Montedison non importava nulla finanziare un partito politico tutto intero, come la de o il psi. No: l'azienda metteva a libro paga quegli uomini, e soltanto quegli uomini, che potevano tornar utili: subito o domani, e comunque da tenere legati a uno stretto giro di amicizia economica. Una strategia che richiede professionisti competenti, affidabili, fantasiosi. Di conseguenza, Cusani avrebbe svolto il ruolo di intermediario fra persone fisiche, punto e basta. Di quale falso in bilancio si sta parlando? C'erano persone fisiche, con nome e cognome, che dall'interno dell'azienda cercavano di acquistare atteggiamenti amichevoli da altre persone fisiche, anche loro con nome e cognome, benché esponenti del mondo politico, cioè dei partiti. Che poi le prime, tra queste persone, manipolassero fondi dalla loro azienda con operazioni di lifting sui bilanci, questi sono fatti loro, che non coinvolgono la responsabilità personale di Cusani neanche nel caso che il libero professionista Cusani abbia liberamente suggerito loro che cosa fare e come farlo. Quanto ai riceventi, vale lo stesso discorso: che fossero uomini dei partiti, non implica la responsabilità di Cusani nel delitto di illecito finanziamento dei loro partiti. Business is business. Ognuno, lascia intendere Spazzali, è adulto e vaccinato, dunque risponde di sé e basta. Questo cardine del ragionamento è quello su cui ruota la contestazione al capo d'accusa più pesante, quello che può portare la pena maggiore. E cioè il falso in bilancio. La tesi di Di Pietro è che Cusani con le sue azioni, con l'aver progettato, suggerito e promosso gli atti operativi della sua attività, pur non essendo un amministratore della Montedison è tuttavia responsabile del concorso con altri nel reato di falso in bilancio. Spazzali sostiene che questa è una bestemmia per le ragioni che abbiamo detto, ed ha lasciato al suo collaboratore Plastina il compito di entrare nei dettagli. E poi, ecco l'effetto comunicativo dell'arringa della difesa, ha tirato fuori Gardini co«Si è uccisormai era ridotto allodalla tasca la ghigliottina come simbolo. Ha ricordato i processi della Rivoluzione Francese per dire: attenzione, allora come oggi la rivo- ^rnss^s^^ ■ luzione cedeva all'impulso di regolare i conti rivoluzionari attraverso i processi: ma il processo è una creatura ingovernabile, anomala, un rischiosissimo «piccolo tratto scoperto» che prima o poi si rivolta contro i suoi promotori perché «un processo non è mai rivoluzionario». E quindi, coloro come Di Pietro che pensavano di «regolare i conti» rivoluzionari con un processo, finiscono col fare i conti con la rivolta delle accuse. Finché gli accusati diventano accusatori e viceversa. Come dire che la Procura di Milano, all'epilogo della vicenda, ha avuto più rogne che conferme da questo dibattimento, trovandosi contro anche l'opinione pubblica «rivoluzionaria», incapace di cogliere il desiderato frutto della condanna esemplare, appunto la ghigliottina. Spazzali ha citato a sostegno di questa tesi quelle che a lui appaiono torbide stranezze: l'arresto di Garofano e la sua estradizione, le testimonianze di personaggi che qui compaiono come testimoni ma che altrove sono imputati; e insomma ha cercato di rovesciare come un guanto l'intera legittimità del processo, portando idealmente Di Pietro sul banco dove invece siede Cusani in giacca beige, attentissimo e un po' spiritato. Conseguenza: Cusani non ha me Aiace o perché un eroe scherno» per il momento alcuna intenzione di rispondere all'accorato appello del pubblico ministero che lo ha supplicato di parlare e dire che fine hanno fatto quei benedetti 63 miliardi che mancano all'appello. Naturalmente Spazzali ha negato che quei 63 miliardi semplicemente esistano, perché i conti della spesa della maxitangente sono a suo parere soltanto presuntivi e virtuali, attestati su una cifra variabile e impalpabile, che potrebbe variare fra i cento e i centoventi miliardi, ma che nessuno è in grado di quantificare. Saremmo su un territorio al di là dell'umano, perverso, automatico e inconoscibile. E poi, come conseguenza dell'assunto iniziale secondo cui la colpa è del sistema necessariamente malavitoso del Grande Mondo degli Affari, Spazzali ha suggerito l'idea secondo cui l'entità della somma di cui si parla, fatte le proporzioni, vale quanto un cartoccio di bruscolini: «La Montedison manovra una liquidità di cassa di sessantamila miliardi» e dunque chi siamo noi, piccoli uomini schiacciati da un tale firmamento? Cusani, dunque, altro non è stato che un grand commis privato ed esperto di questo sistema, ma tuttavia un gregario della storia occulta e non un protagonista promo¬ tore e attore del male in sé. Spazzali ha catturato l'attenzione con qualche sottile teatralità. Come quando ha preso in giragli articoli determinativi sxmmmimmimgm usat-' nell'elenco delle imputazioni: «la» provvista, «le» corruzioni, «i» singoli atti. Ha detto che gli ricordavano i menù di certi ristoranti: «Gli antipasti. Le specialità della casa. Il baccalà alla vicentina. Le verdure alla Julienne». Dimostrando così un'indubbia inclinazione allo snobismo, che peraltro indossa con grande proprietà, come indossa la storia processuale che si svolge, citazione sua, «hors de débat». Che differenza con il rustico Di Pietro, le sue caciotte, le sue zappe sui piedi, le sue cento lire, ti offro un caffè, al paese mio, se tanto mi dà tanto, se non è zuppa è pan bagnato eccetera. L'avvocato Plastina ha poi svolto un'arringa tecnica sul reato di falso in bilancio, augurandosi che Cusani non parli e che nessun imputato ceda più alla tentazione di dichiarare qualcosa o di rilasciare memoriali, e il processo è quindi stato aggiornato a martedì per le conclusioni di Spazzali. Poi, se Cusani davvero tacerà, e se Di Pietro non userà la sua facoltà di replica (il che appare improbabile a giudicare dalla quantità di appunti che il pm andava prendendo e dalle sue passeggiate nervose nei due metri quadrati che gli sono concessi in aula) si andrà a sentenza. Paolo Guzzanti «L'imputato agiva da solo, all'interno di una logica che non ha inventato lui» Gardini come Aiace «Si è ucciso perché ormai era un eroe ridotto allo scherno» Antonio Di Pietro In alto Giuliano Spazzali avvocato della difesa al processo Cusani

Luoghi citati: Cagliari, Milano