Quando un russe vuol parlare americano di Lietta Tornabuoni
Quando un russe vuol parlare americano «Rol'» (Il ruolo), della giovane debuttante Elena Raiskaja, ha vinto a Verona il Premio Reggiani Quando un russe vuol parlare americano La regista Alla Surikova: «Berlusconi, il mio film producilo tu» VERONA DAL NOSTRO INVIATO Le immagini gloriose e mai viste della edizione originale, integrale, non censurata di ((Andrej Rublev» di Tarkovskij che porta il primo titolo «La passione secondo Andrej», hanno concluso la venticinquesima Settimana cinematografica internazionale di Verona dedicata al cinema della nuova Russia. Il Premio Stefano Reggiani, intitolato all'ammirato critico di cinema de «La Stampa» scomparso cinque anni fa, è stato attribuito dalla giuria di critici presieduta da Morando Morandini a «Rol'» (Il ruolo) della giovane debuttante Elena Raiskaja, finito di girare nell'ottobre 1993; il film più gradito dal pubblico, votato da una giurìa di spettatori, è risultato «Uvidef Pariz i umeret'» (Vedere Parigi e morire) di Aleksandr Proskin, pure realizzato nel 1993. Con modi e stile assai diversi, sono tra i film più attuali presentati alla rassegna, tra quelli che meglio permettono di cogliere problemi e sentimenti dei caos russo presente rispecchiati da un cinema disastrato. In «Rol'», interpretato da Valerij Garkalin, singolare performance individuale prodotto, scritto, diretto, coreografato e montato dall'autrice, afflitto da eccessi di poeticismo, il protagonista è un attore che ha deciso di fingersi straniero in patria e di parlare soltanto in inglese: a simboleggiare un ripudio della cultura nazionale e una passione americana che appaiono tipici di questo periodo in Russia. Mentre la moglie lo lascia andandosene negli Stati Uniti con un americano («Voglio vivere, capisci?»), a Mosca per guadagnarsi da vivere l'attore fa il richiamo pubblicitario vivente, in abito da sera danza con una partner elegante e sfiorita nella vetrina del ristorante «Western Style»: e i passanti si fermano incantati a contemplare quell'immagine di sogno e di lusso esotico. Il padre del protagonista fa di mestiere il sosia di Saddam Hussein, e i suoi amici fanno i sosia somigliantissimi di Eltsin, di Margareth Thatcher, di Breznev: come a rappresentare le nostalgie, le aspirazioni, l'inautenticità della vecchia generazione. Il protagonista viene coinvolto in uno di quegli inspiegabili intrighi caratterizzanti la Russia contemporanea, l'incontro con una ragazza lo riconduce alla lingua madre e lo sottrae al cinismo disilluso: la morale del film è un signifi¬ cativo richiamo alla propria identità e cultura. «Vedere Parigi e morire», interpretato dalla bravissima Tatjana Vasileva, prediletto dal pubblico soprattutto di ragazzi che durante la Settimana ha affollato la sala ad ogni proiezione, è un melodramma che unisce l'analisi dell'ossesione amorosa d'una madre provvida, invadente e possessiva per il figlio giovane pianista di talento, all'evocazione del fantasma dell'antisemitismo, tragico nel passato e sempre presente nella società russa. Se la rassegna, mutilata dal mancato arrivo di alcune opere, non poteva con' .ntire un bilancio esaustivo del cinema della nuova Russia, si son viste nei film e nei documentari cose impreviste, impressionanti: uno del Kgb che si uccide sparandosi in testa per esser stato costretto a firmare un ordine d'arresto ingiusto; una giovane coppia che rimane e si aggira, come in un paradiso terrestre o in un lungo suicidio, nel territorio inquinato e nelle città evacuate dopo un disastro ecologico simile a quello di Cernobyl (di cui ricorre tra poco l'ottavo anniversario); il pittore passatista Valerij Balabanov, che si dedica esclusivamente a dipingere ritratti-santini dell'ultimo zar «santo martire della storia russa, monarca difensore della Chiesta di Cristo» e dell'intera tragica famiglia Romanov eliminata «dalle forze del male e delle tenebre». Gli incontri con i cineasti russi hanno rivelato condizioni durissime nella crisi del Paese e del cinema, trasformandosi a volte in psicodrammi. Alla Surikova, regista moscovita di «Coknutye» (Gente matta), ha detto di sentirsi personalmente «alla deriva», di sperare soltanto che i finanziamenti statali tolti al cinema «non finiscano nelle tasche dei mafiosi»; ha raccontato che i registi disoccupati cercano lavoro come fotografi oppure aprono negozi tentando come tutti di darsi al commercio; ha spiegato che la assoluta mancanza di soldi permette (quando lo permette) di girare ora soltanto commedie o film intimisti, «due attori, un appartamento, al massimo un ospedale o una prigione, di più non possiamo». Ha detto che alcuni in Russia arrivano ad augurarsi che la mafia prenda il potere politico, «così da raggiungere almeno una certa stabilità: è un'idea paradossale, ne comprendo l'erigine anche se non la condivido». Lei ha piuttosto un'altra idea: «Vorrei rivolgermi al signor Berlusconi e dargli da leggere la mia nuova sceneggiatura, invitandolo a partecipare alla produzione: sarà un film bellissimo, garantisco». Lietta Tornabuoni La Settimana chiusa con «Andrej Rublev» splendido originale Il regista Tarkovskij: a Verona il suo «Rublev» nell'edizione un tempo censurata
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