La stanchezza del giudice-Rambo

La stanchezza del giudice-Rombo La stanchezza del giudice-Rombo Di Pietro: in politica? Ma io sui deputati indago «SPIANDO» ILPM E MILANO CCO da Di Pietro un buon epitaffio per la prima Repubblica: «Sapesse, signor presidente, quanti ex parlamentari adesso si sono messi in fila supplicando di essere ammessi a confessare. Prima erano tutti innocenti. Adesso vengono a patteggiare: poi dice che la Giustizia non è potente». Con queste parole, l'avrete visto anche voi in televisione, Di Pietro ha interrotto la sua arringa per pochi istanti rivolgendosi al presidente Tarantola. Il presidente ha sorriso appena, come un viaggiatore che non vuole dare confidenza al compagno di viaggio. E' stato uno dei momenti, non rari, in cui Di Pietro ieri si è umanizzato, uscendo dall'armatura bionica da «robocop». Di più: ha avuto quasi un collasso da stanchezza. A me aveva detto che gli dolevano le spalle in modo lancinante. E si massaggiava la clavicola sinistra come se l'avesse slogata. La tensione e la torsione di queste lunghe ore lo mantengono in uno stato di tortura da cui quando può evade, sia pure per pochi attimi. Quando è arrivato il crack ha chiesto una pausa ed è sgusciato dalla toga come da una corazza, lui che è un uomo di pietra, e rideva nervosamente, imbarazzato per il cedimento rivolgendosi al britannico Tarantola: «Non lo rifaccio più questo lavoro, lo giuro, presidente... ah...ah... non lo rifaccio...». Tarantola lo guardava con un'espressione a metà strada fra l'umana pietà e il ben ti sta. Spazzali, il grande avvocato difensore, ha sorriso. Pochi attimi e il tritasassi dipietresco è ripartito nell'autopsia del malaffare. Quante budella, quanto pessimo odore e quanto disprezzo proprio per l'imputato Cusani denudato da quella calzamaglia da Arsenio Lupin, il domino da ladro-gentiluomo e messo a nudo come un verme: «Oggi ci viene a dire che può restituirci parte della somma. Segno che gli era rimasta fra le dita. Si dev'essere autoconcusso». Cusani appare come un fregoli dell'imbroglio, un prestigiatore dell'aggiramento, uno specialista nel prendere le più sporche iniziative per manovrare una massa di denaro che non si può chiamare tangente perché «altrimenti quelli che si occupano di tangenti si offendono». Di Pietro era stremato, ma tutti gli altri erano mitridatizzati: noi giornalisti boccheggiavamo in coma nella saletta a noi riservata e abbiamo accolto con uno sleale applauso l'invito a Di Pietro del presidente Tarantola a stringere. Noi, vilmente, abbiamo applaudito, ma il sostituto procuratore ha accusato quell'invito freddo, all'inglese, distaccato e quasi un po' schifato di Tarantola, come un cazzotto in fronte. Ha boccheggiato, è impallidito, si vedeva che dentro di lui il Di Pietrodi-dentro scalpitava e gli dava pessimi consigli esplosivi, ma la toga ha vinto e si è ricomposto. Lo ha fatto con disciplina, ma anche con amore per il suo lavoro. Il suo lavoro in queste giornate tediose, infinitamente analitiche, più letali della bomba al neutrone, è al momento del trionfo: Di Pietro non parla per i giudici, che ne sanno quanto basta. E non parla per tanto tempo (finora 15 ore piene) neppure per fare il divo televisivo. Parla per sé. Per rendere omaggio alla sua fatica. Sta erigendo il monumento al suo mestiere, al suo modo contadino, monacale, testardo, montanaro, «capatosta» come si dice dalle sue parti, e lo fa per la storia di questo Paese: che restino le videocassette, che resti la memoria, che restino le videate. Che nessuno dica che ha barato, che ha forzato, che ha arronzato. Ne abbiamo dette e scritte tante su di lui e oggi ne vorrei aggiungere una: quest'uomo esce fuori dai bassorilievi della Colonna Antonina, è un miles contadino, un uomo di spada e di vanga, di coraggio metodico al freddo e alla notte. E quindi quest'uomo è diventato e resta una delle più straordinarie figure proiettive di tutti i tempi: una di quelle persone sulle quali cioè le persone proiettano se stesse. Ieri una signora agitata inveiva contro i cronisti che scherzavano su di lui, come si fa a scuola. Le sembrava oltraggioso, impensabile. E ha fatto una scenata. E non era un caso limite perché, rie traggano sociologi e psicologi le conclusioni che credono, Di Pietro Antonio da Montenero di Bisaccia, sostituto procuratore in Milano, è vissuto dalla gente comune di questa città come Garibaldi e Sant'Ambrogio, il libertador e il santo. Ma tutto questo ha i suoi svantaggi, desta sospetti, provoca ire, malumori e molta, molta sup¬ ponenza. Come se non bastasse il processo Cusani (che non finirà prima di dieci giorni: Di Pietro ha bisogno di un giorno e mezzo ancora), sul procuratore di ferro si abbatte un'altra tempesta: la risposta a Berlusconi che lo vorrebbe al governo. Che cosa dirà? Sì o no? O forse? E a che punto sta la trattativa? Come era inevitabile, ieri il sostituto procuratore è state messo in mezzo da un gruppetto di noi, e incastrato in dichiarazioni che desteranno polemiche. Si stava togliendo la toga e infilando la giacca. E allora, a Berlusconi che gli diciamo? Braccato, sbuffa, sbaglia l'entrata nella manica e, arreso, ci dice: «Guardate, che voi ci crediate o no io con Berlusconi non ci ho mai parlato, né di persona né per telefono, non ne so nulla di nulla di questa storia e la leggo soltanto sui giornali. D'altra parte non ho niente da dire: e se dicessi qualcosa, qualsiasi cosa, so già che il senso delle mie parole sarebbe tradito». E fin qui, tutto bene. Sanissima sfiducia nei giornalisti, consapevolezza della strumentalizzazione. Poi però aggiunge: «D'altra parte, pensateci bene, come potrei mai considerare una proposta del genere, quando io ho un'inchiesta per le mani in cui compaiono membri del Parlamento?». Poi torna a parlare del processo e ridendo dice che tutti coloro i quali davanti a lui hanno dovuto ammettere i reati, hanno tutti cercato di «sistemarsi un panno- lino della giusta misura», cioè mascherare l'indecenza. Quindi ci saluta e se ne va. Ma la dichiarazione sulla questione del suo impegno politico vola e viene battuta dalle agenzie mettendo in moto l'inarrestabile Golem delle interpretazioni: che voleva dire riferendosi agli inquisiti in Parlamento? Sono finiti i tempi di Cirino Pomicino. E allora? La traduzione più ovvia è que¬ sta: come potrei sedere in un Consiglio dei ministri accanto ad esponenti della Lega sui quali ho ingato e sto indagando? Oppure pensava ad Occhetto e D'Alema che, seguendo la traccia della sua arringa di martedì, potrebbero trovarsi nei guai per il preteso miliardo consegnato da Gardini (secondo Sama) a Botteghe Oscure? Pensava forse Di Pietro al possibile imbarazzo di un ministro (supponiamo) dell'Interno o della Giustizia chiamato a rispondere in aula alle interrogazioni di due suoi indagati? E poi: perché Di Pietro non ha risposto (se questa era la sua intenzione) che lui a lasciare la toga non ci pensa neppure e che magistrato è, e magistrato resta? La giornata è stata, l'abbiamo detto, faticosissima specialmente per lui. Ma la sua arringa si è sciolta in una commedia dell'arte in cui, con due voci, la sua naturale e quella in falsetto, sceneggiava gli interrogatori come se fosse fra gli amici al bar: «Cusani dice a Panzavolta: a' Panzavò, va 'm po' a paga a Grotti...». Tarantola si contorce: «Beh, forse non avrà usato queste parole...». Ogni volta che Di Pietro si aspetta dal presidente un bene-bravo, prende viceversa un ceffone. E' un fatto. Si dovrebbe scrivere un opuscolo sui rossori di Di Pietro, le sue frustrazioni di uomo onestissimo e rustico, ma sottilissimo e navigato, come il suo glossario, la sua grammatica, il suo repertorio di proverbi e modi di dire. Chi avrebbe mai pensato di vedere quanto pesa un miliardo in banconote da centomila? Lui. E pesano quattro chili e due etti. Dieci miliardi quarantadue chili. Dica, signor Bisignani, come fa a non ricordare dove ha messo un pacchetto del peso di sedici chili? E lei Cusani, uno di venti? La sua idea dei rapporti fra holding è matrimoniale: «Eni ed Enimont hanno appena divorziato e diventano amanti il giorno stesso». Il bidone che ha scoperchiato e in cui rimesta è un groviglio di reperti che sono anche tutta la liturgia di una casta che aveva come unico obiettivo quello di mantenere in vita se stessa: «Tutti hanno preso, tutti hanno approfittato per fare la cresta». E comunque è sempre Cusani che stabilisce in perfetta autonomia come falsificare i bilanci Montedison (pur non essendone amministratore, ma da «interfaccia», proconsole per conto terzi) e che con orgoglio comunica a Sama nel 1991 che «l'operazione è finalmente conclusa». Cusani mente, ne ha diritto, ma non è facile sostenere «che la luna è quadra e il Colosseo non esiste». Sama, Garofano, Cusani e Gardini si spartivano i ruoli secondo questa metafora: «Uno compra la pistola, uno ammazza, un altro nasconde il cadavere». E via con i conti di provenienza, i conti di destinazione, una società Bressay che spunta per fatturare un milione e duecentomila dollari, una Consob che «è andata molto oltre la legge in vigore»; Gardini mette la greppia sotto la bocca dei politici dicendo: «Diventiamo amici, io ci guadagno ma voi pure». Di Pietro si rivolge al presidente sperando in un sorriso, un attestato piccolo così: «Vede signor presidente, già vado meglio, già ho accelerato il ritmo...». E Tarantola: «Sì? Per quanto tempo pensa di averne, ancora?». Paolo frizzanti E a Tarantola: «Se rinasco non rifarò più questo lavoro» L'ex ministro della Sanità Francesco De Lorenzo

Luoghi citati: Milano, Montenero Di Bisaccia