Un cattivo che l'America rimpiange di Vittorio Zucconi

Un cattivo che l'America rimpiange Un cattivo che l'America rimpiange Ascesa, caduta e rivincita di un politico geniale dissero che nessun americano avrebbe mai comprato un'automobile usata da lui, con quegli occhi astuti e diabolici, ma gli americani gli affidarono per due volte la Casa Bianca. Ma ora che giace a 81 armi semiparalizzato e ammutolito per sempre dall'ictus, «in condizioni molto serie ma stabili» come dicono i medici, la stessa America che l'ha odiato, poi eletto, poi cacciato, poi rieletto come «statista anziano» scopre con un brivido di panico di non poter fare a meno di lui. Ha telefonato premuroso Clinton per sapere come sta. Ha chiamato Ben Bradlee, il direttore di quel «Washington Post» che lo mise in croce con le sue inchieste, per fare gli auguri. Il sindaco di New York, Rudi Giuliani, è corso al suo capezzale. E persino Ted Kennedy, l'ultimo di quelli là ha detto di «pregare per lui». Non glielo hanno riferito, per non agitarlo. Stava per sedersi a tavola, lunedì sera nella sua casa di Park Ridge un sobborgo ricco di Manhattan, dove vive solo con una governante, quando è crollato a terra. Dicono che fosse stanco, che non si fosse ripreso da un faticoso viaggio a Mosca, intrapreso in marzo per la curiosità, la voglia di andere a vedere che cosa succedesse in Russia. Ma nessun medico, nessun consigliere è mai riuscito a condizionare Nixon: «Ho attraversato le valli più buie delle sconfitte e ho scalato le vette più luminose del successo - disse - ma ho sempre camminato con le mie gambe, senza l'aiuto di nessuno, senza lobbies né stampelle». Non come, c'e bisogno di dirlo?, quelli là. La sua non è una semplice storia politica, una biografia da politicante che vince e perde battaglie nell'«Arena» di una democrazia, come si intitola uno dei suoi libri. La vita di Richard Nixon è quanto di più vicino alle «Vite dei Cesari» svetoniane che la nuova Roma americana possa offrire. Gli inizi fra i ruvidi marinai della flotta del Pacifico, orfano in cerca di fortuna. La carriera rapida di giovane generale della destra repubblicana e maccartista che lo impone al vecchio generale Eisenhower, come vicepresidente. Il primo duello con il capo dei «barbari», Nikita Kruscev nella finta cucina della fiera internazionale di Mosca, sui meriti del comunismo e del capitalismo. Gli scandali che lo lambiscono subito e lo costringono a lacrimosi discorsi di addio, prontamente seguiti da ritorni dall'esilio e da resurrezioni. Il duello all'ultima goccia di sudore perso con l'odiato John Kennedy davanti alle telecamere nel 1960. La rivincita, con le due vittorie elettorali capire come era fatto davvero il mondo, a guardare con sicuro realismo alle necessità della politica estera. Assediato dallo scandalo nella sua Casa Bianca, ridotto all'alcolismo e all'impotenza da stress, come riferivano prontamente le infinite «Gole Profonde» della politica, Nixon conservò abbastanza lucidità per tagliare il cancro del Vietnam, creato proprio dai liberal come Kennedy e Johnson e per riconoscere quella Cina Comunista, che la sinistra americana aveva finto di ignorare. I sovietici lo adoravano, perché dava loro quello che i russi sempre agognano: il rispetto dell'uguale. Gli europei lo temevano, come temevano il genio dal pesante accento tedesco che si era scelto come consigliere di politica estera, Henry Kissinger. Pat, la moglie devota, morta lo scorso anno, piangeva, sola, negli appartamenti privati della First Lady. Le due figlie, Tricia e Julie, sposata a un figlio di Eisenhower, lo adoravano. «Lo so, il mio nome passerà alla storia con un segno di vergo- del '68 e del '72, distrutta poi dalle dimissioni forzate nel '73. Parlava ruvido, come un legionario, o come un marinaio. Quando i consiglieri discussero con lui la crisi monetaria internazionale del 1971, un economista gli parlò dei problemi della lira italiana e si sente la voce di Nixon rispondere: «...non me ne fotte un c... della lira...». Come in una tragedia classica, si costruì lui stesso il patibolo sul quale finirà per essere impiccato. Fece installare registratori segreti nell'ufficio ovale per sorvegliare e incastrare i nemici, ma i nastri inchioderanno lui alle responsabilità dello scandalo Watei-gate, il furto di documenti segreti nel quartier generale democratico, ordinato dalla Casa Bianca. «Secondo me ci sono i Kennedy, dietro questo casino» ringhia la voce registrata di Nixon. Poi, dopo una pausa, un grido: «...e io glielo metto nel c... ai Kennedy». Fruscii e rumori di fondo. Ma l'uomo che l'America liberal, radical-chic, raffinata odiava, fu l'ultimo Presidente americano dopo Franklyn Roosevelt a Vittorio Zucconi