Anche il mafioso ha diritti costituzionali

Anche il mafioso ha diritti costituzionali Anche il mafioso ha diritti costituzionali PALERMO. L'accusa di appartenenza a Cosa Nostra non è di per sé sufficiente a provare la capacità di un detenuto di «impartire dall'interno del carcere, anche attraverso i colloqui con i familiari, ordini di esecuzione di gravi reati». Il principio è stato fissato dal tribunale di sorveglianza di Bari, che ha accolto il reclamo presentato dal presunto mafioso Vito Brusca, parente del boss di San Giuseppe Jato, contro il provvedimento del ministero di Grazia e Giustizia che sospendeva nei suoi confronti l'applicazione delle ordinarie regole di trattamento penitenziario. Il tribunale ha stabilito, in relazione alla sentenza della Corte Costituzionale n. 349 del 1993, che la «compressione» dei diritti del detenuto deve essere adeguatamente motivata. Dopo avere sottolineato che la decisione a carico di Brusca e di altri 231 reclusi, citati in unico elenco, è stata assunta con un unico «apodittico» riferimento alla loro potenzialità criminale, il tribunale afferma che il provvedimento è stato «formulato in dispregio non soltanto di tutto l'apparato di norme previste dall'ordinamento penitenziario, ma anche dei più elementari principi garantiti dalla Costituzione». Vito Brusca avrebbe compiuto alcuni delitti insieme con il pentito Balduccio Di Maggio (uno di quelli che avrebbe contribuito a scoprire il rifugio di Totò Riina), che lo accusa e se ne accusa. [Ansa] legale di Luciano Liggio, e Giovanni Aricò di Roma. Una curiosità: la lettera è stata spedita per raccomandata da un ufficio postale cittadino e reca quale mittente Serafino Catalano abitante in via Enrico Albanesi 18, la stessa strada in cui è situato il carcere dell'Ucciardone. Ecco il testo: «Il sottoscritto Provenzano Bernardo, nato a Corleone, imputato per il procedimento Lallicata dinanzi alla Corte d'assise di Palermo, nomino mio difensore di fiducia gli avvocati Traina Salvatore, del foro di Palermo e Aricò Giovanni del foro di Roma, conferendo loro il potere di impugnare sia per decreto che per sentenza. Con identica a quella manifestata due anni fa dall'avvocato Cristoforo Fileccia, difensore di Riina, che addirittura del suo cliente dichiarò «è vivo ed è in Sicilia» una precisazione, quest'ultima, con la quale Riina intese far sapere a chi di ragione che era sempre «in zona», dunque pronto ad intervenire per conservare inalterato il suo potere. L'apporto decisivo di un drappello di pentiti, fra i quali Balduccio Di Maggio e Giuseppe Marchese, permise poi ai carabinieri del Ros di catturare Riina. Ora è Provenzano, anche lui per oltre due decenni nella più buia delle clandestinità, che secondo l'accusa rivolta al questore Bruno Contrada sarebbe stata addirittura garantita anche dai servizi deviati, a far clamore per «provare di essere in sella». Una dimostrazione che non avevano potuto dare la moglie di Provenzano, Saveria Palazzolo di 52 anni, titolare di parecchi beni ed aziende, che con i tre figli un bel giorno, due anni fa, se ne tornò a Corleone, dove abita tuttora. I ragazzi parlano discretamente bene il tedesco perché forse col padre e la madre sono stati per anni in Germania. Lapidari i giudizi dati tempo fa da Liggio su Provenzano: «Spara come un dio, peccato che abbia il cervello di una gallina», e su Riina: «Vorrebbe dare morsi più grandi del¬ osservanza Provenzano Bernardo». Il presidente ha subito trasmesso la lettera a Giancarlo Caselli perché il procuratore della Repubblica la includa nell'inchiesta sul superlatitante del quale, confermando che è vivo, l'avvocato Traina ha voluto sottolineare che non è stato ucciso come tempo fa qualcuno si era messo a mormorare in giro per delegittimarlo. «E' un latitante - ha affermato il penalista - e non si poteva certo pretendere che indicasse il suo vero attuale recapito. In ogni caso è vivo». L'ansia di Traina nel far sapere che Provenzano non è stato ucciso è

Luoghi citati: Bari, Corleone, Germania, Palermo, Roma, San Giuseppe Jato, Sicilia