Il Céline della pittura
Il Celine della pittura a Milano e Brescia due rassegne per l'istrione svizzero, anarchico solitario Il Celine della pittura Scopriamo gli abissi di Varlin CMILANO OME ha ragione Roberto Tassi, nel suo illuminante saggio che apre il catalogo Elccta, in onore della mostra milanese dedicata a Varlin a Palazzo Reale: «Mi sembra inutile ormai continuare a domandarsi perché Varlin non è conosciuto, o almeno non conosciuto in tutto il campo internazionale come la sua grandezza meriterebbe». Non se ne può più di riesumare cadaveri imbarazzanti nei cassettini della critica ottusa: e forse è giusto così. Che poteva farsene della misera gloria un anarchico esplosivo come il nostro grande eccentrico svizzero, che si chiamava accidentalmente Willy Guggenheim, ma che mai avrebbe accettato di portare per il mondo questo nome imbarazzante da magnate-collezionista e che preferì scegliere quello provocatorio di Varlin (assonanza con il clochard Verlaine?) dal rivoluzionario francese che rovesciò la colonna Vendòme, insieme a Courbet? Quel ruggente pseudonimo glielo propose il mercante Zborowski, quello stesso di Soutine e Modigliani, due alcolici disperati che colpirono subito il cuore di questo emigrato zurighese (già passato per la Berlino di Isherwood, ad imbibirsi di Grosz e di Dix): «Così ottenni, già da vivo, una strada a Parigi». Varlin ha da sempre detestato il successo e recita questa idiosincrasia in un bellissimo video, sacrificato in un angolino del Palazzo Reale: si mette tronfio ad una specie di balcone, da Piazza Venezia ticinese, mentre il polline o la neve stempera le sue smorfie. Oppure sale da vivo su un piedistallo, fin¬ gendosi di bronzo: «Quando diventi famoso, è la fine, dormi sugli allori. L'arte è una lotta continua contro l'incomprensione delle masse». Strano destino, però, il suo. Anche adesso, che sarebbe utile quanto mai rafforzare la sua immagine per carità, non vogliamo addentrarci nei misteri delle gestioni dei poteri assessoriali - ma che senso ha smembrare la sua opera così ben aggomitolata, con due mostre praticamente simultanee, ma non collegate, e con cataloghi a sé, che rischiano soltanto di diminuire la sua intensità? Se non riescono nemmeno a mettersi d'accordo i curatori, troverà mai il pubblico la ragionevole forza di prendersi il trenino, per andare a Brescia, alla Pinacoteca Tosio Martinengo, dove il 21 aprile si aprirà un'altra antologica parallela? Se la mostra milanese, curata dall'assessore Daverio e da Anna Sansuini, è una sorta di hors d'oeuvre propedeutico alla sua magmatica opera fumigante ed inarrestabile (nulla a che vedere con la ben più completa retrospettiva di Lugano di qualche anno fa), quella di Brescia punta su alcuni capolavori segreti delle collezioni italiane. E si avvale di un coraggioso saggio di Maurizio Cecchetti, chiarificatore ed ambizioso sin dal titolo, Il Novecento di Varlin, che vuole usarlo come antidoto esplosivo contro le avanguardie, «grande leva rimestatrice nel magma, tutt'altro che a riposo, del Novecento». Lo pensava anche Testori: Varlin, «protagonista ancorché totalmente alternativo, ritirato e incantinato, affatto sconosciuto», risulta più terremotante ancora di Bacon e di Giacometti, perché «stava dalla parte della vita». S'ingozzava di vita, come un tragico insaziabile bambino, lui che celiava così, nato emblematicamente con il secolo e rovesciando ironicamente le prospettive: «La luce del mondo mi vide il 16 marzo 1900. Sono rimasto povero in canna sino ai cinquantanni. Come lattante devo aver avuto l'aspetto che ha mia figlia nei miei quadri, satanicamente urlante, con tutti gli odori del caso». Odori, liquidi, brodi e brodaglie: la sua è una pittura onomatopeica, anche se grida nella novecentesca apnea del silenzio. Annette tutto, come se il colore non bastasse: un giovanile «ritratto» di luna-park londinese («Varlin fa passare il mondo, insieme anche a se stesso, nella macchina del ritratto», scriveva Testori: tutto ha diritto di venir sacralizzato) non si esime dall'inserire un diavoletto di plastica; il hobby d'Edimburgo ha un cinturone vero; un falpalà di feltro vedovile penzola come un fez sul carro da morto, che tante volte amò scaramanticamente riprodurre. Ma non era un gioco dada da objet trouvé: anche quando officia il suo Omaggio a Segantini, la ruminante mucca lascia andare un plop sonoro che è di autentico sterco, imburrato con la pittura. Non dissacrazione, anzi, ma devozione alla vita. Quella che gli fa dilatare esplosivamente le fisionomie rablesiane. Una bulimia che tutto coinvolge: Varlin dipinge (prende) le tele dietro, davanti e di lato; lascia che gli amici camminino sulle sue opere (è successo per anni al Cimitero, 1970, che suggella la mostra) quasi ad «inverare» la verità del suo sguardo che viene da terra; «imbratta» stipiti e porte, dilaga dove può. Ma attenzione, l'eremita di Bondo, non è un pittore materico, alla Morlotti, alla Moreni. Basta vederlo (nel video) saltellare come un folletto, pizzicare la tela, stuzzicarla con il carboncino (che poi riaffiorerà sotto la carnagione sanguigna del colore), sferruzzare nervosamente la tela come uno schermidore sofficissimo. E' come un invasato celeste, che voglia rifare la Nona di Beethoven sfiorando il clavicembalo (non a caso, forse, Testori evocò l'acido umorismo di Rossini). La sua pesantezza nera e melanconica è ottenuta con la levità del colore; nei suoi spropositati gonfaloni di amici nudi (come in Bacon e Freud spesso abbondano i nudi maschili: come arrivare all'osso della propria nullità) bastano pochi guizzi di rosa a fare della juta, respirante e vergine, una corazza muscola- re. Non è soltanto un giochetto concettuale, quello che l'istrione Varlin escogita per finire il suo film: calciando sull'aia di casa le sue tele dentro una lavatrice, che prende fuoco, restituendo al cielo delle lenzuola candide, mentre il selciato si impregna del sangue del colore. A questo erede blasfemo di Toulouse-Lautrec bastano pochi tocchi allucinati e dilavati, qualche schizzante baffo di colore, per dire la tragica verità obesa della realtà miserabile. Toglie, invece di stratificare: usa l'invasata trasparenza per riprodurre la corposità. Le fisionomie non stanno più nella pelle, esplodono, si scheggiano, entrano in fibrillazione, in una centrifuga universale, Lavatrice Cosmica. E' proprio questa vorticante dimensione poliformica, plurispaziale, multiprospettica che connota la pittura di Varlin e che lo rende così inafferrabile. Lui stesso lo sapeva benissimo. «Più tardi, i primi passi nello spazio, la scoperta della terza dimensione, ignorata dai piatti pittori moderni». Una pesantissima, brutale assenza di gravità. Perché il miracolo di Varlin, questo incontenibile Celine della pittura, è di raccontare la pesanteur, per dirla con Simone Weil, con l'umoristica levità di Chaplin. Per capire l'ironia devastante di Varlin forse sarebbe utile sfruttare la categoria della carnevalizzazione di Bachtin, della polifonia che s'imbeve di tutte le voci, che «scorona» il re, in una risata liberatoria. Ed è proprio il satanico, atrabiliare Goya (qui esaltato in alcuni affumicati d'après) a dargli la forza della pittura quasi senza colore, della monocromia sacrale, del nero, «questo nobile colore cui già Platone ebbe ad attribuire il significato della conoscenza e dell'oblio». Sosteneva l'amico drammaturgo e pluri-ritratto Dùrrenmatt - che possedeva moltissimi Varlin e diceva: «mi pare di essere io stesso uno dei suoi ritratti» - «Varlin è uno degli ultimi artisti capaci di meravigliarsi del reale... mi ha insegnato ad osservare» eppure «non sono mai riuscito davvero a scandagliare gli abissi che si celano dietro i suoi volti». E raccontava che ogni volta che guardava L'Esercito della Salvezza aveva l'impressione che uno dei personaggi dipinti, posto maliziosamente accanto al cabaret dei liquori, voltasse progressivamente lo sguardo goloso verso le bottiglie, nella speranza che la moglie dipinta accanto a lui non se ne rendesse conto. Come Billy Wilder, quando racconta meravigliosamente che è ritornato più volte a rivedersi un suo film, nella speranza che l'attore migliorasse quell'espressione vuota. Perché effettivamente i quadri di Varlin, quei suoi personaggi dalle mani sanguinanti di cuochi con gli avambracci infarinati di vita, le gambe aperte come in un Whistler degli umili, quel poetico narratore dei caffè deserti, il cameriere dal grembiule sozzo ed i piedi strascicanti e le specchiere vuote d'immagini abitate da fantasmi, non finiscono di vivere mai, di mutare. Continuano ad esplodere, come bombe teneramente anarchiche. (Viareo Vallerà Amico diDurrenmatt Testori lo paragonò a Bacon e Giacometti mSBÈmmr*am Un nudo di Varlin «Montreux in inverno», 1967-'68: un dipinto dello svizzero Varlin
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