Rivedere Jarman il poeta con la musica di Brian Eno di Gianni Rondolino
23 Al Festival «Da Sodoma a Hollywood» Rivedere Jarman il poeta con la musica di Brian Eno Tra i fantasmi della Nuova Zelanda e l'America delle produzioni per la tv TORINO. Aveva detto Derek Jarman nel 1980: «Utilizzo la cinepresa come un pittore per vedere fino a che punto posso arrivare con il Super 8. Sono interessato agli esperimenti sulla luce, sui colori, sulle sovraimpressioni e così via». Di questa straordinaria sperimentazione si è avuto un buon campionario l'altra sera, in uno dei programmi più attesi e affollati della nona edizione del Festival «Da Sodoma a Hollywood»: «Glitterbug», che Jarman ha realizzato con la collaborazione di David Lewis, rimontando frammenti sparsi dei molti Super 8 girati fra il 1971 e il 1986. Il film, in realtà, non è soltanto un campionario di stili e tecniche, documenti d'epoca e ricordi, ma anche e soprattutto, grazie al nuovo montaggio e alla musica appositamente composta da Brian Eno, un'opera altamente poetica, in cui circola la tensione lirica e la frammentazione linguistica, la poesia e la quotidianità, l'amore e la contemplazione. E termina con le scialbe immagini in bianco e nero dello studio di Jarman nel Bankside di Londra, riprese nel 1971 : i primi tre minuti di cinema realizzati dal grande regista inglese, deceduto lo scorso febbraio. Di fronte a questo film, al tempo stesso intimistico e gridato, povero e magnifico, cineamatoriale e squisitamente poetico, rischiano di sbiadire i lungometraggi in concorso, spesso in bilico fra provocazione, estetismo e indagine sociale. Anche se un film come il neozelandese «Desperate Remedies» di Stewart Main e Peter Wells, che ha aperto il festival (in sostituzione dell'annunciato «Fresa y chocolate» di Tomas Gutierrez Alea e Juan Carlos Tabio, rifiutato all'ultimo momento dal distributore), non è privo di una sua carica fantasmatica, fra espressionismo e barocchismi vari, che trasforma la storia di un amore lesbico, sullo sfondo del secolo scorso, in una rappresentazione obliqua (prevalgono le inquadrature sghembe) di una realtà che pare continuamente tramutarsi in sogno. In «Belle» dell'olandese Irma Achten, invece, o in «Smoke» dell'americano Mark D'Auria l'elemento autobiografico e il discorso intimista-memoriale - nel primo caso il rifiuto della ricchezza per inseguire la poesia, nel secondo l'infanzia negata e il conflitto col padre - non paiono uscire da un formalismo di maniera e da una tensione drammaturgica che si sfalda nel compiacimento estetico e in una non necessaria frammentazione narrativa. Rischi in cui non cade «Passeggiando dopo mezzanotte» di Atif Yilmaz, prolifico regista turco, che affronta la storia di una dottoressa in una sperduta cittadina dell'Anatolia come fosse una piatta descrizione cronachistica, più televisiva e cinematografica; o l'americano «Grief» di Richard Glatzer che descrive l'ambiente di una piccola casa di produzioni televisive, in cui si intrecciano amori omosessuali, come una graziosa commedia di costume, non priva di humour e di risvolti drammatici, ma estremamente esile e ripetitiva. Meglio allora i cortometraggi, alcuni dei quali di forte impatto visivo o di sottile e intensa liricità. Si pensi a «Central Park» dell'americana Sande Zeig, al canadese «Thick Lips, Thin Lips» di Paul Lee, al francese «Dance macabre» di JeanMarc Prouveur, una sorta di baccanale delirante. Ma si pensi soprattutto al geniale «Description of a Struggle» dell'americano Tony remberton, una meditazione sulla gioventù che mescola Kafka con i film dell'avanguardia americana degli Anni 40; o al divertente e melanconico «Woman of the Wolf» di Greta Schiller. Gianni Rondolino
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