Aminta e Ronconi una favola nel vuoto di Masolino D'amico

All'Argentina di Roma, la pastorale di Tasso con Roberto Zibetti nella parte di protagonista, Delia Boccardo e Massimo Popolizio All'Argentina di Roma, la pastorale di Tasso con Roberto Zibetti nella parte di protagonista, Delia Boccardo e Massimo Popolizio Aminta e Ronconi, una favola nel vuoto Palcoscenico troppo vasto per una recitazione inafferrabile ROMA. In ((Aminta», favola boschereccia che il giovane Torquato Tasso scrisse per i sollazzi degli Estensi nel 1573 sublimando la formula della pastorale, niente o quasi accade sotto i nostri occhi, e quanto ci è riportato durante i cinque rapidi atti è convenzionale e stilizzato. Il pastore Aminta spasima per la ritrosa ninfa Silvia, ed è aiutato dall'amico pastore Tirsi, così come Dafne, amica di Silvia, cerca di convincerla a vincere la sua ritrosia. Silvia è insidiata da un satiro, che Aminta scaccia senza però ricevere gratitudine. Poi un'altra ninfa, Nerina, annuncia di aver trovato le vesti di Silvia insanguinate; credendola morta, Aminta si butta giù da un dirupo. Ma Silvia è incolume, e anche Aminta sopravvive alla caduta; la ninfa gli dice finalmente di sì. Senza dubbio la corte per cui il divertimento fu composto vi trovava allusioni che a noi sfuggono; tuttavia il lavoro fu poi tradotto e ammirato universalmente. Propo¬ nendolo oggi nell'ambito della rassegna del repertorio italiano promossa dalla gestione del Teatro di Roma nella quale è nel frattempo subentrato, Luca Ronconi lo aggiorna sostituendo alla staticità delle tirate e delle situazioni una certa nevrosi sia nella dizione, che ben poco segue il mellifluo ritmo dei versi, sia nella gestualità, spesso risolta con corse abbastanza frenetiche per il grande spazio che è stato creato e sul quale tornerò. I personaggi sono stati vestiti da Gabriele Mayer in quel modo ibrido che oggi tanto spesso si usa per fare i conti col passato remoto: da zotici i bamboccianti Aminta (Roberto Zibetti) e il Satiro (Edoardo Siravo); con ampia veste tizianesca, ma scalza, Dafne (Delia Boccardo); in tunichetta e con arco e faretra Silvia (Sandra Toffolatti), in nero da cortigiano d'epoca Tirsi (Massimo Popolizio); da boutique Armani, ossia in calzoni e giacca larga sul nudo, Daniele Salvo che dice il prologo come Amore; in parodie di funerale moderno, gli annunciatori di funeste novelle Gabriella Zamparmi (Nerina) e Jacopo Serafini (Ergasto); in lungo scollatissimo la stralunata Venere di Sabrina Capucci, non prevista dal Tasso ma comunque sopraggiungente a pronunciare un epilogo. Le interazioni fra costoro sono di solito seccne e addirittura concitate, il tono lo dà sin dall'inizio Amore, che digrigna aspramente le sue frasi mentre si infila i calzoni e percorre in largo e in lungo tutto il palcoscenico. Già, appunto, il palcoscenico dell'Argentina: ecco il vero protagonista di questo allestimento, più nel male che nel bene. Perché Ronconi lo ha voluto spoglio: alzandosi., il sipario rivela una vastità pari quasi a quella della sala, con la parete dell'edificio come fondale. Unici interventi dello scenografo Sergio d'Osmo, un rivestimento bianco su tutto il pavimento, e larghe strisce anche bianche che talvolta scendono dall'alto a escludere questa o quella zona; sul fondo vengono anche rivelati due o tre cipressi, e in un'altra occasione ci sono degli alberelli dentro vasi. Ma per lo più questa distesa, illuminata da Sergio Rossi in chiave di candore, evoca il vuoto, la vastità della mente disponibile ai sogni. Il rovescio della medaglia è che in questo vacuum le voci ahimé non sempre bene allenate degli interpreti quasi sempre si perdono. In soldoni: di lunghe battute, spesso pronunciate con le spalle voltate al pubblico, ovvero correndo, non si capisce quasi nulla (mi trovavo in sesta fila di canale, e ho recentemente superato un test di udito dal mio otorino). Quando dopo due ore e dieci (la serata, senza intervallo, dura 140') arriva per il racconto del prefinale Arnoldo Foà che è il vecchio pastore Elpino, e parla pacato, stando fermo quasi alla ribalta, è come se ci sturassero gli orecchi. Finalmente non dico dei H H Nella foto: Massimo Popolizio con Delia Boccardo in una scena dello spettacolo to dalle fragorose risate di addetti ai lavori che ghiottamente coglievano ironie: ma per essere ammessi alla loro cerchia bisognava conoscere bene l'«Aminta», all'ignaro non potendo giungere che la vaga impressione dell'intenzione goliardica di prendere in giro un testo aulico, un po' come quando da ragazzi ci sentiamo spiritosi pronunciando battute dei libretti d'opera come se fossero la lingua normale. In altre parole, la scelta fra cercare di portare un arduo classico agli indotti, ovvero di deliziare gli esperti, si è decisa a favore dei meno. Ancora da segnalare nella confezione, le piacevoli musiche di Paolo Terni, temi antichi affidati a un moderno pianoforte; e nella buona resa generale sul piano mimico, qualche sporadico brandello di espressività anche vocale, soprattutto da parte di Popolizio. Insistiti applausi dei fans, repliche fino al 29. versi e della musica, ma delle parole con dei significati. E' un' àncora di salvezza, ma gettata troppo tardi - subito dopo infatti la graziosa Capucci conclude torcendosi e spogliandosi, e gridacchiando qualcosa di certo tassesco ma di indecifrabile come il resto. Sì, il sonno di gran parte dei convenuti è stato disturbato ogni tan¬ :■:-:-:-: v '-:-x-> :■:■:■;■:■:■:-:•;•:-:■:■:■.■. ■:■.-:■ .-:■.■:•:•.-.■. v.-.-.v Masolino d'Amico

Luoghi citati: Argentina, Roma