Tra i killer con lance e machete

Tra i killer con lance e machete Tra i killer con lance e machete Pulizia etnica per cancellare i tutsi Le mosche ronzano insistenti sopra i corpi immobili ammassati davanti all'altare «Sono stati gli hutu a fare tutto questo» laggio di Gikorò, dove il croato Danko Litric e lo sloveno August Horvat - i due sacerdoti cattolici della zona - avevano cercato di ricreare in Ruanda una piccola e utopica Jugoslavia. Ma i loro sogni di pace sono falliti. Adesso, i due sacerdoti, rinserrati nella casa della parrocchia, non riescono a nascondere l'amarezza, le lacrime e la paura. Qui, davanti all'ingresso della loro chiesetta di mattoni rossi, sono riversi i loro parrocchiani. Cadaveri di bambini e ragazzi abbandonati lungo le strade [FOTO REUTER] della Caritas si sono trasformati in luoghi di morte. All'interno della chiesa, le mosche ronzano insistenti sopra i corpi immobili che hanno formato una specie di grande mucchio, proprio davanti all'altare, come se, all'ultimo momento, le vittime avessero cercato un aiuto che non è mai arrivato. «Sono stati gli hutu. Tutti i morti sono tutsi», spiega padre Horvat, che dice addio con la mano ai pochi che rimangono, incapace di concedere un'ultima be¬ «Impossibile contarli», dice padre Horvat, tentando di fermare una lacrima che gli scende lungo la guancia. Seduto in una jeep, scortato dai soldati italiani, pensa a ciò che ha lasciato. Tanti cadaveri che - di sicuro - è impossibile contare. Bambine con la bocca rattrappita in un'ultima smorfia di dolore, bambini bloccati in pose inverosimili, anziani torturati, donne con il cranio sfondato. Qui c'è un braccio che non ha più un corpo e, poco oltre, giacciono i resti di una mano. Persone abbracciate, incastrate, ammucchiate, in una fuga che non le ha portate da nessuna parte. Ormai, sono una massa informe di individui fatti a pezzi. Niente altro che una immane distesa di cadaveri. Padre Litric, che è riuscito a contattare il contingente italiano per chiedere aiuto, mi dice una cifra: 1180 vittime. Non solo la chiesa, infatti, ma anche il centro culturale di Musha e la locale sede nedizione. Un gruppo di ragazzi, seduti dall'altra parte della strada dove è cominciata la strage, con mazze e pietre tra le gambe, guardano in silenzio i soldati italiani che si mordono le labbra e maledicono queste scene di orrore. Passa una Toyota, carica di guerriglieri, e un soldato con una mitragliatrice al fianco si mette a vomitare. «Sono bestie quelle che hanno fatto tutto questo». In mezzo a questo mare di sangue, vestiti strappati, gambe, braccia e corpi che sembrano elevare in silenzio un'immensa preghiera per il Ruanda, si muove un braccio. Da quella massa violacea e scarlatta, si agita un braccio come un naufrago che si è perso nell'oceano. «Non possiamo fare nulla. Non è compito nostro», mi dice il comandante italiano. Quando torniamo nello stesso punto, dopo aver salvato un sacerdote belga nel vicino villaggio di Umudugudu, il braccio non si muove più e se ne sta ormai immobile, come se fosse l'asta di una bandiera invisibile. Poi, d'improvviso, si alza il vento tropicale e comincia a piovere, sulle piste sterrate e sui campi di questa terra di Ruanda. Alfonso Armada Copyright «El Pais» e per l'Italia «La Stampa»

Persone citate: Alfonso Armada, August Horvat, Danko, Horvat, Pais

Luoghi citati: Italia, Jugoslavia, Ruanda