MEGLIO DICKENS DI HEIDEGGER di Aldo RizzoMarco Vozza

MEGLIO DICKENS DI HEIDEGGER MEGLIO DICKENS DI HEIDEGGER La filosofia dell'americano Rorty Aldo Rizzo IL filosofo americano Richard Rorty può già essere annoverato fra i classici del pensiero contemporaneo, sia per l'interesse delle sue tesi sia per la novità di un approccio capace di mettere in relazione la tradizione anglosassone della filosofia analitica del linguaggio con quella continentale praticata nelle nostre università. Questi Scritti filosofici II, pubblicati da Laterza, costituiscono il quinto libro di Rorty tradotto in italiano e ciò appare piuttosto clamoroso se pensiamo che altri blasonati filosofi americani come Sellàrs, Davidson o Cavell da noi sono noti soltanto presso pochi specialisti. Secondo Rorty il compito principale della filosofia moderna è stato quello di formulare una teoria generale della rappresentazione, di comprendere i fondamenti della conoscenza attraverso lo studio dei processi mentali e dell'attività rappresentativa dell'uomo inteso eminentemente come soggetto della conoscenza. Esiste qualcosa come uno specchio interiore in cui si dispongono e si riflettono gli oggetti mentali e questo accesso privilegiato alla coscienza è la garanzia della nostra fedeltà speculare al mondo esterno. Tratteggiato in questi termini il disegno di un secolare modello conoscitivo, ai filosofi post-nietzschiani consapevoli dei limiti di quel programma di ricerca metafisico non resta che indicare percorsi inediti di esperienza senza la pretesa di fornire un'interpretazione univoca e vincolante della realtà. Dopo i tentativi operati in questo senso da Heidegger e più recentemente da Derrida (le cui opere sono ampiamente discusse in questi saggi) Rorty cerca di recuperare l'approccio pragmatista ai valori cognitivi, etici ed estetici in termini di felicità individuale e di utilità sociale. Riproponendo il contributo teorico di Dewey e di James, Rorty si avvicina esplicitamente alle prospettive aperte dal «pensiero debole» di Vattimo e anche di Gargani (cui dobbiamo la prefazione a questo volume), il quale ha più volte sottolineato l'esigenza di una transizione dalla teoria alla narrazione. All'origine di tali suggestioni speculative, orientate verso una sintesi di ermeneutica e pragmatismo in chiave estetizzante, vi è una visione della storia della filosofia che Rorty ridescrive come conflitto tra due tradizioni, una kantiana l'altra hegeliana (in senso molto lato): mentre la prima concepisce la verità come relazione verticale tra pensiero e realtà esterna, la seconda intende il vero come rapporto orizzontale tra interpretazioni che vengono costantemente reinterpretate. Rorty si colloca esplicitamente tra i filosofi della linea hegeliana (quella parassitaria e decostruttiva) ma avverte anche, con encomiabile ironia, la vacuità di questo infinito gioco di reinterpretazioni, viziato - in Heidegger come in Derrida - dall'ossessione di risvegliarsi dal sogno, o meglio dall'incubo, della metafisica e diventare finalmente autentici antipbtoni ■ ci. Nel saggio meno accademico contenuto in questo libro: «Heidegger, Kundera e Dickens», Rorty intende neutralizzare Heidegger contrapponendogli Dickens con il conforto di Kundera. Heidegger sarebbe l'ultimo e più affascinante esemplare di quel tipo d'uomo che Nietzsche chiamava «prete ascetico», smanioso di cogliere l'essenza pura, incontaminata del reale, la sua autentica configurazione. L'obiettivo di comprendere l'Essere e la sua ambivalènte manifestazione nella storia occidentale può essere realizzato soltanto da un Pensatore o, meglio ancora, da un Poeta capace di evocare l'ineffabile. Kundera considera il romanzo come strumento di ribellione contro l'astrazione filosofica, come reazione anticlericale al predominio culturale dei preti ascetici: «La saggezza del romanzo differisce da quella della filosofia. Il romanzo è nato non dallo spirito teorico ma dallo spirito dello humour. Uno degli sbagli dell'Europa è di non aver mai capito l'arte più europea, il romanzo; né il suo spirito, né le sue immense conoscenze e scoperte, né l'autonomia della sua storia. L'arte ispirata dalla risata di Dio non dipende, per sua essenza, dalle certezze ideologiche, ma anzi le contraddice. Come Penelope, essa disfa nel corso della notte la trama che teologi, filosofi, scienziati hanno tessuto durante il giorno». Mentre il filosofo esercita il suo gusto ascetico per la teoria, l'astrazione e l'essenza, il romanziere predilige la contingenza, l'ironia e la solidarietà i valori cioè a cui Rorty aveva consacrato il suo precedente libro. Alla distinzione concettuale tra realtà e apparenza, Rabelais, Tolstoj o Musil preferiscono la descrizione della molteplicità degli eventi e dei punti di vista, senza erigersi a rappresentanti esclusivi della verità. Kundera scrive che «l'uomo diventa individuo proprio quando perde la certezza della verità e il consenso unanime degli altri. Il romanzo è il paradiso immaginario degli individui. E' il territorio in cui nessuno possiede la verità, né Anna né Karenin, ma in cui tutti hanno diritto ad essere capiti, Karenin non meno di Anna». Affinché il romanzo diventi compiutamente sinonimo di «utopia democratica» Rorty introduce la variante Dickens, i cui personaggi resistono ad ogni maldestro tentativo di classificazione morale, sottraendosi all'elenco dei vizi e delle virtù in qualità di semplici individui che vivono all'interno di una società auspicabilmente orientata verso la tolleranza e la solidarietà. Marco Vozza Richard Rorty Scritti filosofici II trad. di Barbara Agnese Laterza, pp. 280. L.35.000

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