Amici Maestri di Oreste Del Buono

Amici Maestri Amici Maestri E, prima, non c'ero io o non c'eravate voi? Dov'eravate? Tutti in Australia? Perché io c'ero anche prima, vi assicuro e, intendiamoci, questa non è mancanza di riconoscenza per Fellini. Figurarsi...». Sulla toletta aveva il volume con la sceneggiatura del Satyrìcon, il film che aveva disseppellito dall'oblio il popolare Fanfulla, lui lo accarezzò come per tenerlo buono, molcirlo, vezzeggiarlo. «Figurarsi. Federico non ha pari...». Il volume si sfogliò docilmente sotto le sue dita un poco gonfie, sinché, tra l'immagine plastica, orribile e sacrale di Vernacchio e le immagini dissimilmente belle e similmente ambigue di Encolpio, Ascilto e Gitone, non trapelò un ritaglio di quotidiano con la notizia che il Satyrìcon era preso in considerazione per l'Oscar. «Lo ripeto sempre, Federico dovrebbe pagare l'Ige sul genio. E' un autentico genio. Me lo ricordo quando ci scriveva le battute per le riviste, un ragazzo agli esordi, ma già con una testa così, un talento. E un cuore. Lui si è ricordato di me, di quello per cui scriveva le battute. Se n'è ricordato lui, di sua iniziativa. Manco sono buono di andare dagli amici miei che hanno sfondato nel cinema. Me ne sto per conto mio, mi butto giù i miei copioni, me li recito, me li canto, me li ballo, me li porto in giro. Non è una vi- avere studiato l'inglese da piccolo. E chi pensava a studiare l'inglese allora? Il teatro era il teatro, il futuro sembrava assicurato; Permette che mi levi i pantaloni?...». Ora parlava in fretta, mangiandosi le parole, come se dovesse rivelarmi un segreto, prima di entrare in scena. «Le pene che mi è toccato sopportare per non avere studiato l'inglese da piccolo. L'ha visto, per caso, quel film che ho fatto con James Mason, Oltre la tempesta, una roba del genere? Avevo il personaggio di una guardia di finanza. Dovevo recitare la parte in inglese, e mi ero studiato tutti i suoni a pappagallo. All'ultimo non salta in testa a qualcuno di cambiarmi le battute? Ci impazzivo. Era troppo tardi per imparare la parte a pappagallo. Così mi sono arrangiato. Chiari, pronunciavo solo gli attacchi giusti per Mason, poi andavo avanti a vanvera, ma parlando sottovoce. Il regista diceva che non sentiva bene. Il pasticcio è venuto fuori quando si è trattato di doppiare il film in italiano. La mia lingua risultava sconosciuta, e sfido io...». Indossò qualcosa di sfarzoso e sorprendente, un giallo acceso che stava tra l'arancione delle guance e il rosso del naso, un giallo acceso con paillettes che si accendevano al minimo movimento, ma la faccia resta- Fanfulla. starci. O E io no, non potevo compagnia Fanfulla- SI aprì la porta. Irruppe nel camerino un fragore di spari e di urla feroci. Era la colonna sonora del film che stavano proiettando nella sala del cinema-teatro «Smeraldo». La voce del nuovo venuto faticò a imporsi: «Ho dato la mezz'ora, commendatore». La porta si richiuse su 36 ore all'inferno. L'impressionante era che lui non ti guardava mai, e, invece, ti avvertivi guardato. Teneva gli occhi fissi davanti a sé, apparentemente perduti nel vuoto. E poi scoprivi di colpo che ti guardava nello specchio, mentre parlava piano, piano, amaro: «E' tanto tempo che sto in questo mondo, il mondo del teatro, dico. Cinquantatré anni. E ne ho cinquantasei. In cinquantatré anni ho lavorato con tutti i comici che hanno contato o contano ancora, da Maldacea a Chiari, da Molinari a Sordi, da Totò a Tognazzi e di ognuno o quasi potrei raccontarle da chi ha preso. Se mi fosse consentito ma c'è pur sempre una certa solidarietà di categoria. Quello che mi sento di affermare chiaro e tondo, senza temere la minima smentita, è che il qui presente Fanfulla non ha preso nulla da nessuno. Tranne che da sua madre. Sono figlio d'arte. In arte mia madre si chiamava Diavolina. E da lei, ecco sì, proprio da lei, ho preso l'abitudine di portare in scena i frac colorati. Allora, erano una trovata, ormai li portano tutti, anche non in scena, anche quelli che non fanno i comici di professione...». Scosse la testa. Con un sospiro, continuò a truccarsi. Si spalmava le guance un poco, pallide con quel cerone .color arancio. «Cinquantatré anni che lavoro, ho cominciato a tre. E a cinquantasei continuo. Non che non mi piaccia lavorare. Ma mi piacerebbe poter scegliere, ogni tanto. Lavorare per conto mio a costo di rimetterci. Imposizioni, patteggiamenti, compromessi non mi vanno. Comunque, non posso dire di avere avuto fortuna. E' la verità. E a volte, mi ripasso la mia carriera. 0 la mia vita. E' lo stesso. Tre anni di più, tre anni di meno. Mi ripasso la mia vita, e mi domando: cosa ho sbagliato? Perché, a un certo punto lo sbaglio, deve esserci stato, non si scappa. Io che sono stato in compagnia con i più grandi, io che ho riempito 1 teatri con la prima commedia musicale italiana, Orchidea verde, io che ho inventato una comicità particolare, io che ho scritto le migliori canzoni, se la ricorda Quando passa Francesca Maria?, io che, alla fine della guerra, godevo di una popolarità immensa, è la parola giusta, immensa, io, Fanfulla, mi sono visto sorpassare da tanti in fama e guadagni. E qual è stato lo sbaglio? Magari, di sbagli, ne ho fatti molti. Per cominciare, credo che uno sbaglio ci sia stato nella scelta del nome. Lo conoscono tutti, d'accordo, ma forse non funziona come dovrebbe funzionare. D'altra parte, mi chiamo Luigi Visconti. A Roma, avevo qualcuno, ce ne ho ancora, zii, parénti vari in posti importanti, di rispetto, tipo la manifattura tabacchi. Mi occorreva uno pseudonimo, un nome d'arte. Sono stato incerto tra Fanfulla e Attila. E poi ho deciso per Fanfulla. Chissà, forse, Attila avrebbe funzionato meglio. Va' a sapere. Meglio con il cinema. Il teatro non conta per il successo. E tra Fanfulla e il cinema mi sembra ci sia incomprensione...». Con la matita nera si ritoccava le sopracciglia, doveva distenderle un poco per rinforzarle, ma tornavano subito ad aggrottarsi. «E' il cinema che fa il successo, amico mio. Ho fatto Vernacchio nel Satyrìcon, la parte di un guitto con la coda, che, quando alza la coda, esplode un pernacchio, e, allora, tutti a congratularsi. Registi di nome: Zampa, Bolognini, Zeffirelli. Grazie per le congratulazioni. Grazie di cuore. Ma solo perché ho fatto una parte con Fellini? glla) ia» Osiris o niente. Ma, al mio arrivo al Mediolanum con la prima commedia musicale italiana Orchidea verde, c'erano i fedelissimi della Vanda in platea, e forza con i fischi. Ci chiamavano terroni. A un certo punto, non fui più capace di dominarmi. Provocai il pubblico: ci chiamate terroni, a noi, ma voi siete cretini. Ottenni un finimondo. Fui costretto a dormire in teatro. La sera successiva, comunque, ebbi i miei applausi. L'unica in circostanze simili è affrontare il pubblico direttamente. Gli domandai: me lo dovete dire chi è il cretino, io o voi? E gli applausi sommersero i fischi. Oh, son cose passate. Allora ero al "Mediolanum", ora sono allo "Smeraldo"...». Aveva finito la tirata con il fiatone, ma perfettamente in tempo per dar l'attacco all'ultimo arrivato: «Cinque minuti, commendatore...». Si calcò in testa un copricapo che rifulgeva, ma non bastava a rischiarargli completamente la faccia tenacemente aggrottata. «L'inglese, avrei dovuto studiare l'inglese da piccolo per prepararmi al futuro, per quando il teatro non sarebbe stato più il teatro, e il successo l'avrebbe dato solo il cinema. Io, l'inglese, voglio provare a studiarmelo ora. Non posso ammettere l'idea di essere costretto a rinunciare a qualche vero personaggio, dopo il rilancio del Satyrìcon. Provi un poco a pensare: se in un modo o nell'altro al Satyrìcon tocca l'Oscar e io ci sono, nel Satyrìcon, no?, con la mia coda e il mio pernacchio, magari mi offrono qualche vero personaggio da cui sia possibile tirar fuori tutta una gamma di espressioni, di sentimenti, di contraddizioni. Rinunciare ancora una volta per il maledetto inglese che non so, mi costerebbe, e non solo in denaro mi costerebbe. Non si vive solo per il denaro. Il denaro, al massimo aiuta a vivere. Ma la vita...». Aprì la porta del camerino. Sparsi, carezzevoli, disordinati accordi d'orchestra venivano da oltre il sipario. Si fermò a guardare sfilare le ballerine inglesi della sua compagnia tutte linde, carine, educate. Ognuna nel passare mormorava: «Sorry... Excuse... Scuso... Sorry...». Lui si appoggiava al muro con una mano, come se l'amarezza gli facesse ritardare il contatto con il pubblico. Sul muro, proprio sotto la sua mano un cartello della direzione del locale si rivolgeva ai Signori Artisti, invitandoli perentoriamente a non usare in palcoscenico il minimo lazzo scurrile, il minimo doppiosenso, la minima allusione. Questo teatro non tollera nel modo più assoluto... L'elenco delle cose non tollerate nel modo più assoluto era lungo. «Un vero personaggio nel cinema», disse ancora lui «chiedo troppo? Il personaggio migliore sarebbe quello di un prete. Eh, sì, è con il prete che uno può veramente tirar fuori tutto. Vorrei fare proprio un prete moderno, antico e moderno, come me la sentirei di farlo. Un prete nel mondo d'oggi...». Scosse di nuovo la testa. Era il turno suo, non era più ammessa un'esitazione. «Mi piacerebbe proprio fare un prete con una crisi morale...» bisbigliò. E poi la sua faccia aggrottata si spianò d'incanto, vi si stampò un sorriso misterioso, remoto, irresistibile. Mi lanciò uno sfarfallio delle dita come saluto. Ed era già fuori. Solo qualche applauso. Gli spettatori non dovevano essere molti in sala. Stava parlando: «Un tizio incontra un tale che spinge un bidone enorme. Il tizio chiede: dove vai? Vado alla mutua, gli risponde il tale. E cos'hai in quel bidone? chiede il tizio. E il tale risponde: sai il medico della mutua ha detto di farmi controllare l'orina ogni mese». Una risata, due risate, forse tre. Il commendator Luigi Visconti, in arte Fanfulla, ma forse sarebbe stato meglio, a suo parere, Attila, il favoloso Fanfulla, comunque riprese impavido: «E quest'altra la sapete?...». Luigi Visconti (in arte Fanfulla) Accanto: Manda Osiris «Ho lavorato con tutti i comici: da Maldacea a Totò, solo con Wanda Osiris non ho fatto compagnia» ta comoda, ma, a ogni modo, è la mia vita, la vita che mi dà da mangiare, che dà da mangiare a me e ai miei. Ho ancora da pensare a mia madre, sa? Ha ottantasei anni, Diavolina...». «Commendatore, il quarto d'ora...». Richiudendosi, la porta stentò ancora a contenere le raffiche di spari, e di urla feroci. Cosa stavano combinando laggiù, all'inferno? Lui si alzò, accennò a togliersi la vestaglia verde a scacchi neri, e poi si fermò a metà gesto. «Non che non abbia mai fatto del cinema. Però mi sa che l'ho preso sempre dal verso sbagliato. E' inutile, sinché non gli affidano un vero personaggio, un personaggio da cui sia possibile tirar fuori tutto, una gamma di espressioni, di sentimenti, di contraddizioni, uno ha un bell'essere bravo. Gli manca l'occasione di dimostrarlo. Il comico sul serio, e di questo me n'intendo, è quello che è capace di passare dal riso al pianto, dal pianto al riso con la maggiore naturalezza. Ma, quando il personaggio non lascia passare, dove si attacca uno? E poi, con il cinema, il guaio è la lingua. Il cinema è americano da cima a fondo, e io sono italiano, anzi romano, che è come dire un italiano più italiano degli altri. Le pene che mi è toccato sopportare per non va aggrottata. «Senza la conoscenza dell'inglese si rimediano solo parti del cavolo. E umiliazioni. L'ha visto, per caso, quel film che ho fatto con Stewart Granger, Le miniere di Salomone, una roba del genere? Avevo il personaggio di un boia con la barba. Dato che non potevo sostenere gran dialoghi, potevo risparmiarmi un duello con Stewart Granger? Avevamo stabilito le sciabolate, così e così, giù e su, ma lui era come un indemoniato, tutte le volte esagerava, faceva delle mosse che non avevo studiato, tirava certi fendenti. Allora io buttavo la sciabola per terra, a'v:avo le braccia, e mi arrendevo. Lui s'incavolava. Ma che colpa ne avevo io? Era lui a non rispettare il contratto...». «Le pene che mi è toccato sopportare per non avere studiato l'inglese da piccolo. E chi ci pensava a studiare l'inglese allora? Che trionfo fu per me interpretare la prima commedia musicale italiana Orchidea verde. Un trionfo a Roma, un trionfo a Firenze, un trionfo a Bologna. Dispiaceri solo qui a Milano. Ma non senza un motivo. Vede, l'unica grande soubrette italiana con cui non ho mai fatto compagnia è stata la Vanda. Già, perché lei voleva che il suo nome figurasse davanti al mio in cartellone. Compagnia Osiris- Oreste del Buono

Luoghi citati: Australia, Bologna, Firenze, Milano, Roma