In tribunale lo spettro di Contrada

Quindici mesi in cella hanno cambiato fisionomia al questore inquisito per mafia Quindici mesi in cella hanno cambiato fisionomia al questore inquisito per mafia In tribunale lo spettro di Contrada L'ex 007 non apre bocca nel primo giorno di processo Anche i vecchi colleghi a vedere «il capo alla sbarra» Agguato a Falcone, scoperti i mandanti Si alza l'ultimo velo sulla strage di Capaci Sotto accusa tutti i boss della Cupola Decisive le confessioni dei pentiti Il vecchio maresciallo, una vita alla squadra mobile, caserma «Cairoli», sporge la testa dal nugolo di fotografi e cineoperatori che si azzannano per cogliere la faccia disfatta di Bruno Contrada, un tempo «il dottore», mito della favolistica investigativa palermitana, oggi alla sbarra, stretto nelle spalle rimpicciolite, le mani intrecciate in una stretta nervosa, fragile, quasi invisibile in mezzo ai carabinieri che non lo mollano un attimo. Il sottufficiale in pensione incrocia lo sguardo di altri che furono alle carette dipendenze del dottore. Un cenno d'intesa, un lieve ammiccamento che è una dichiarazione rassegnata: «Chi avrebbe mai immaginato che un giorno ci saremmo rivisti per assistere al processo contro il nostro capo». Eppure hanno voluto esserci i «vecchi». Sottoponendosi alla estenuante fila davanti al carabiniere che chiede il documento e ne annota gli estremi. Che tristezza, questo esordio del processo Contrada. Che tensione nell'aula della quinta sezione del Tribunale, troppo piccola per ospitare il morboso assedio di cronisti e reporter, troppo esposta anche all'eco del rumore dei motorini delle Nikon scatenate. Contrada è costretto a sedere accanto ai suoi legali. Il presidente Ingargiola non se la sente di lasciarlo in pasto ai fotografi e chiede se «ci sono controindicazioni» all'ipotesi che il questore non sieda sul banco degli imputati. Quello è il fantasma di Contrada, dice chi lo ha conosciuto. Dov'è finito il sorriso beffardo, l'ironia tagliente, l'aria distratta di chi non si cura delle cose «ter- PALERMO DAL NOSTRO INVIATO Per vent'anni è stato responsabile delle pagine dell'auto de «La Stampa» ra terra»? Non apre bocca, il questore inquisito per mafia. Forse non sente neppure le domande che gli lanciano i giornalisti. Ma non può non sentire il crescendo di parole, pesanti come macigni, che i pubblici ministeri - Antonio Ingroia e Alfredo Morvillo - gli indirizzano quando è il momento di spiegare la tesi accusatoria. Chiude gli occhi, il fantasma coi capelli bianchi che non ha rinunciato ad esporre, sull'occhiello sinistro, il vecchio distintivo di ex bersagliere. I due accusatori leggono, implacabili, trentaquattro pagine di addebiti infamanti. Milio e Sbacchi, i difensori, tentano il primo attacco ai pentiti e chiedono al presidente che in au¬ la si parli di fatti e non di generici racconti che ancora non hanno avuto dignità di prove. Obiezione respinta, direbbe Perry Mason, e i pm affondano il coltello. C'è un momento che l'aula viene letteralmente invasa dai fantasmi. Il racconto dei pubblici ministeri evoca nomi e circostanze: personaggi che non ci sono più, mancati tragicamente, e che pesano terribilmente nella memoria collettiva dei palermitani. Falcone, Borsellino, Ninni Cassare, il compianto Boris Giuliano un tempo «grande amico di Contrada», oggi indicato quasi come una delle vittime del «tradimento» del funzionario sotto accusa. L'aula si popola di ricor¬ Due foto di Bruno Contrada: prima dell'arresto e ieri in aula CALTANISETTA uno soltanto, Matteo Motisi, indicato come il capo della borgata Pagliarelli, che è stato rinchiuso ieri nel carcere dell'Ucciardone. Gli altri mandanti della strage, secondo la direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta, sono Bernardo Provenzano, da alcuni ritenuto il nuovo capo di Cosa Nostra in Sicilia dopo che è stato catturato Totò Riina, Pietro Aglieri, Michelangelo La Barbera, Carlo Greco, Antonio Giuffrè, Benedetto Spera, che sono latitanti,, nonché Giuseppe Calò, Salvatore Buscemi, Giuseppe e Giacomo Gambino, Giuseppe Farinella, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, Antonino Geraci, detto Nenè, Giuseppe Marchese, Francesco Madonia, Giuseppe Moltalto e il figlio Salvatore Montalto. Determinante si è rivelato l'apporto dei pentiti. Balduccio Di Maggio, che fu autista di Riina e fu decisivo nella cattura del boss il 15 gennaio dell'anno scorso dopo 23 anni di latitanza, ha confermato che la decisione di uccidere Falcone la Cupola la prese già nel 1984 quando il giudice raccolse le prime, clamorose rivelazioni di Tommaso Buscetta. Salvatore Cancemi, uno dei pentiti che stanno rivelandosi più utili, avrebbe detto ai magistrati: «Dobbiamo collaborare tutti. Sono fiero di collaborare dando il mio apporto». Cancemi ha affermato di essere stato indotto a pentirsi soprattutto dopo che, nel carcere dell'Ucciardone, la stessa sera della strage di Capaci, gruppi di mafiosi brindarono con champagne. ti massonici»... «stretto rapporto esistente tra Bruno Contrada e Rosario Riccobono e l'uno faceva il confidente dell'altro»... Le parole dei pubblici ministeri rimbombano nell'aula del secondo piano del palazzo dei veleni. Gli avvocati serrano le mascelle, il figlio del questore - il giovane Guido - incrocia lo sguardo della moglie che sta al di là delle transenne, l'imputato abbassa lo sguardo e segue il racconto leggendo sulla copia a sua disposizione. Segna con la penna, segnala le cose che, secondo lui, non vanno. Sono davvero tante, le accuse. Tutto accertato, dice l'accusa. I pm assicurano che «questo ufficio non si è limitato a recepire le dichiarazioni dei sette collaboranti» che hanno parlato. Esistono i riscontri, esistono molte altre testimonianze e fatti, dicono Morvillo e Ingroia, esortando a non ridurre il processo ad un semplice banco di prova sull'utilizzazione dei pentiti. «La prova si acquisisce in aula», replicano gli avvocati. Entrambe le parti si affannano ad esibire un «fair play» che difficilmente reggerà alla prova della lunga durata. Il processo è solo all'inizio, i testi da sentire sono più di duecento, alcuni - come il prefetto Parisi addirittura «contesi» tra accusa e difesa. La strada è tutta in salita e non può avere come sbocco tante verità. La conclusione dovrà avere una sua chiarezza inconfutabile, non saranno possibili mezze certezze. Non sarebbe giusto proprio per la memoria di tanti uomini che sono morti per ridare dignità a questa città e salvaguardare l'integrità delle Istituzioni. NOSTRO SERVIZIO Si fa piena luce sulla strage di Capaci in cui, il 23 maggio 1992, la mafia trucidò Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta. Furono usati più di 600 chili di tritolo e altro esplosivo per eliminare il nemico numero uno di Cosa Nostra. La direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta ha emesso diciannove ordini di custodia cautelare contro i membri della Cupola di Cosa Nostra. Non è una novità, ma la conferma che furono proprio i boss più importanti della mafia siciliana a decretare la fine del magistrato Giovanni Falcone che, divenuto direttore generale per gli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia, appariva loro ancora più temibile di quando era procuratore aggiunto della Repubblica a Palermo. Nel novembre dell'anno scorso erano già stati emessi ordine di custodia in carcere contro i presunti esecutori materiali e contro il capo assoluto della mafia dell'isola, Totò Riina. Cinque mesi fa, le incriminazioni riguardarono i latitanti Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella, cognato di Riina, Santo Di Matteo e Salvatore Biondino, i fratelli Calogero e Domenico Ganci e Giusto Scialabba e Antonino Gioè che si suicidò soffocandosi con un sacchetto di cellophane in carcere a Roma, tormentato dal rimorso. Ora la nuova ondata di arresti dei presunti responsabili, quasi tutti in carcere o latitanti. Ne è stato arrestato adesso