De Staél tradito dal cognome

Confuso con la «Madame», ora una mostra antologica colma la «colpevole ignoranza» Confuso con la «Madame», ora una mostra antologica colma la «colpevole ignoranza» De Staél, tradito dal cognome Un grande del '900 dimenticato per 30 anni EPARMA Amia vita sarà un perenne viaggio in un mare incerto», profetava, giovanissimo. Tu dici: «Vado a vedere la mostra di De Staèl» e vedi occhi smarriti, interrogativi. Suona bene quel nome che ricorda Madame Necker, la madrina di Corinna (ne era imparentato, per via del padre, barone Baltico al comando della Fortezza Pietro e Paolo), ma poi nulla, una gran nube di mistero. Incredibile come un grandissimo, un assoluto del Novecento, sia così poco riconosciuto («notorietà segreta» come sentenziò un suo gallerista, introducendolo in America, dove ha raggiunto valori proibitivi). Dici Warhol o Segai, magari Pistoletto o Ontani, e tutti s'inchinano. De Staél (Nicolas): una smorfia d'incredulità. Imbecille, sorda Modernità critica. Vale dunque questa provvidenziale antologica alla Fondazione Magnani di Mamiano, a colmare quella colpevole ignoranza (dopo il valoroso 1960 della prima retrospettiva a Torino)? Onestamente, l'inaugurale gettito d'occhio è come sconcertato. Non vuol essere una critica all'impaginazione della mostra - forse golosamente un poco soffocata - o alla scelta, ragionevolissima se non ottimale, dei due competenti curatori, Simon Studer e Dominique Levy (c'è contemporaneamente a Parigi un'altra rassegna di settanta microopere recuperate dal figlio). Per esempio, su quello mediano, si sarebbe forse potuto privilegiare l'ultimo periodo, più tragico e respirante: quello dello smarrimento degli oggetti d'uso, annegati nella solitudine lancinante, quasi punitiva dell'esistere. Come quella Lanterna che oscilla desolata e proterva, di luce cieca, su un fondo color aranciata. Oggetti alla Ponge, «smessi» a fuoco oppure taglienti come i coltelli ch'egli usava per spatolare le materie, i suoi incomparabili grigi. Aggrapparsi alle cose: grida d'aiuto che irraggiano come silici sbrecciate dal forte d'Antibes (smilitarizzato: ecco il fatale cerchio ciaikovskiano che si chiude), quello spalto da cui s'abbacinò il suo corpo suicida, che non riusciva più a trovar sonno, per esuberanza di vita. «Non riesco a resistere e anche le tele di tre metri che inizio e sulle quali pongo alcuni tocchi al giorno, riflettendo, finiscono sempre nella vertigine». Ma, ripetiamo: non è un problema contingente. La forza eversiva dei quadri di De Staèl è tale, che ogni tela esigerebbe una parete, uno sguardo a sé. Il bruciare interno della loro tensione è così prepotente che rischia di annientare tutto quello che sta accanto. E proprio poiché lui aveva ammesso: «Si percepirà forse un giorno, per caso, ch'io evolvo con logica, e che ogni quadro per me è un tutto», appunto, turba ogni volta questo rischio considerevole, nel voler ricreare «artificialmente» quel Tutto, fatto invece di bagliori frammentati, di esplosioni assolute, quasi di «folgoranze» d'esistenza, che rapiscono l'occhio e lo abitano, con violenza. Ecco, bisogna ogni volta saper ricostruire un habitat visivo, quadro per quadro, soggiacendo a quell'icona isolata. «Respirare... Respirare... Non pensare mai al definitivo senza l'idea d'effimero». «E tutto questo guadagna il largo, muto, muto del tutto». De Staél dipinge per liberarsi dalla pittura. Lo confessa, esplicitamente: la sua «pittura, fragile come l'amore» finisce d'assediarlo come un'ossessione. «Nella mia vita ho avuto bisogno di pensare alla pittura, di vedere quadri e dipingere per liberarmi da tutte le impressioni, le inquietudini alle quali non ho mai trovato altra risposta che la pittura». Un trionfale circolo vizioso. Fuggire. Invece. Bellissima, per esempio - per coerenza visiva - la stanza «iperbarica» d'introibo, che lo rende però ancora troppo Ecole de Paris: Riopelle, Manessier, Viera da Silva. Ma se penetri meglio in quelle trappole facinorose, in quegli spezzoni agonici di lotta tra luce e materia - titoli: Piège, Che- lin diffidi, o quello, tutto nicciano, di Ressentiment - finestre-prigioni «arci-finite senza fine», miracolato ossimoro di una pittura quasi senza pittura («io ho bisogno sempre di una buona contraddizione per dipingere in libertà») capisci che il mondo, il «suo» suono, è ormai definitivamente mutato da quella compagine tachiste. Nelle ultime ore di vita rifletterà: «L'esplosione in me è in tutto come una finestra: capirete che non posso fermarla, rifinendo di più le cose». Forse per offrire più dignità alle opere si sarebbe dovuta sacrificare la prima sala d'omaggio, a Magnani collezionista, che negli ultimi anni si regalò un De Staèl. Sala dove non tanto i Morandi, ma quello scheletro di Bagnanti di Cézanne (un «gamin, un ragazzino al confronto di Velazquez», concluderà l'irrequieto navigatore d'Antibes) sembra riallacciarsi al giovanile ritratto 1941 di Jeanine, la prima moglie. «Mi domandavo: "Che cosa ho dipinto? Un mortovivo o un vivo-morto?". Allora, poco a poco mi sono sentito a disagio quando dovevo dipingere un oggetto rassomigliante, perché trattandosi di un oggetto solo mi disturbava l'infinita molteplicità degli altri oggetti coesistenti, che diventa impossibile ritrarre». E' esattamente il ribaltamento dell'estetica tomista studiata da Joyce (il celebre cesto che si isola nello sguardo dell'artista contemplatore). Inizia qui il grande viaggio-scacco del filosofo De Staèl, questo eroe puskiniano del colore che si toglie la vita per eccesso d'amore di vita, forse per «troppa luce». «Bisogna credere alla luce della conoscenza. Intendo dire che è necessario saperne l'intensità». Quella stessa luce che l'ha ferito al «culmine» d'Agrigento - Empedocle che si lascia crollare nel vulcano gelido delle sue tele brucianti. Icaro moderno, angelo ribelle ch'è stato insieme paggio alla corte di Nicola II e contemporaneo di Vadim e Brigitte Bardot, invasato di Boulez, Webern e Schoenberg. Gli Dei sconsacrati che dettano il silenzio allarmanto del suo interminato Concert (nel ricco catalogo Electa, un coivolto saggio di Minardi parla dei suoi rapporti con la musica, Roberto Tassi sapientemente illumina il ruolo «poetico» delle sue lettere folgoranti). «Non si dipinge mai ciò che si vede o si crede di vedere. Si dipinge, vibrazioni a mille, il colpo subito, o che si sta per ricevere». De Staèl, l'amico-complice del poeta René Char, metabolizza quello choc, quell'affronto: «Non una partenza, tutt'al più un falso rinculo». Gli oggetti non hanno più sagoma, figura: si evoca la loro perdita, il loro smarrimento, la «falsa morte di una bottiglia», come dirà l'amico Granville. Polposa scheletricità. Rilke: «L'apertura silenziosa degli interspazi». Dopo aver tracciato «tentativi» zen di figure perfette, l'ossatura fragile d'una pera o il dondolare ozioso d'un battello, De Staél non penetra nella tela come il monaco-pittore dell'apologo buddista, ma si lascia crollare in un vuoto esuberante, ridondante quasi d'interstizi e cicatrici, nell'«opacità raggiante» che l'ha ferito a Roma. Come suggerirebbe Lacan: ripete cerimoniosamente, processionalmente (ricordiamo l'influenza luminescente e ieratica dei mosaici ravennati) la béance costitutiva, quel vuoto originario che nessuna pittura può colmare. Come un personaggio di Dostoevskij «piango tutto solo di fronte alle mie tele», «abbraccio le tele, in ginocchio, pregando». Né possiamo noi, umili pellegrini, rimanere «di fronte». Se vogliamo ascoltare la sua voce, dobbiamo inabissarci, lasciarci vulnerare. «Ci si perde per sempre, a partire dall'istante in cui qualcosa accade. Tutto è fuori di noi». Marco Vallora Confessava: dipingo per liberarmi della pittura Due opere di grande efficacia del pittore Nicolas de Staél In alto, Nu couché (1955). olio su tela Qui a fianco, Portrait de Anne (1954)

Luoghi citati: Agrigento, America, Parigi, Roma, Torino