Ombre di morte al processo Contrada di Francesco La Licata

Palermo: domani il via, ma l'ex 007 non c'è ancora, si teme per la sua vita Palermo: domani il via, ma l'ex 007 non c'è ancora, si teme per la sua vita Ombre di morte al processo Contrada L'imputato dovrà comparire in manette E' accusato di aver tradito i colleghi PALERMO DAL NOSTRO INVIATO Lui, il dottore Contrada, unico imputato di un processo che si annuncia come un atto d'accusa a tutto il sistema del cosiddetto «quieto vivere» mafioso palermitano, non ha lasciato ancora Forte Boccea. Nel carcere militare romano, l'ex capo della squadra mobile di Palermo arrivato poi agli alti gradi del servizio di sicurezza civile, è rinchiuso dal 24 dicembre del 1992. Quel giorno non si era ancora insediato Giancarlo Caselli - la procura della Repubblica di Palermo firmò l'ordine di custodia cautelare che accusava il funzionario di essersi macchiato del più infamante dei reati: collusione col nemico, cioè Cosa nostra. La stessa organizzazione che a Palermo ha fatto strage di tanti amici e colleghi di Contrada, a cominciare dal vicequestore Giorgio Boris Giuliano, che in questa città viene ricordato come un eroe e per anni è stato considerato il più intimo dei colleghi dello stesso Contrada. Il processo è stato fissato per domani: sarà presente l'imputato in stato di detenzione, assicura il freddo linguaggio burocratico. Già, in manette. I magistrati di Palermo, infatti, non hanno ritenuto di concedergli la libertà in attesa del giudizio o, quantomeno, gli arresti domiciliari. Si sospetta che il funzionario possa «inquinare le prove», come si dice. E le carte processuali non nascondono il giudizio sull'uomo ritenuto mente diabolica e capace di sdoppiarsi: colluso con la mafia seppure dando l'impressione di esserne stato acerrimo nemico. Non ci credono, i giudici di Palermo, al Contrada poliziotto sapiente e acuto. Non credono al suo impegno contro Cosa nostra. Da quelle carte viene fuori l'immagine di un investigatore venduto, non per soldi ma per sete di carriera. Chi, invece, gli vuol concedere qualche attenuante, ma sempre a mezza voce, sottoscrive la tesi che «Contrada è diventato un altro dopo l'assassinio di Boris Giuliano». Cioè si è «raffreddato» per paura, è diventato «morbido» per conquistarsi la sopravvivenza. Tutto pronto, dunque, per dare inizio al dibattimento. Tutto, tranne il fatto che l'imputato non è ancora arrivato. Come mai? Si dice che siano sorti problemi per far giungere Bruno Contrada a Palermo. Nessuno parla chiaro, ma il senso del clima di mistero che ammanta l'argomento, il disagio colto nelle espressioni dei cosiddetti responsabili della sicurezza dell'imputato, non lasciano margine al dubbio. Si teme per la vita del questore e il suo trasferimento non presenta adeguate garanzie. D'altra parte analoghe perplessità sono state esposte da Piero Milio uno dei difensori. Esagerazioni? Cedimento alla consuetudine palermitana, molto incline alle suggestioni complottistiche? Non è detto, dal momento che il processo a Contrada rappresenta il primo vero banco di prova per la credibilità dei collaboratori della giustizia. I pentiti oggi messi in discussione con grande anticipo, gli stessi che dovranno in seguito testimoniare contro personaggi ancora più illustri del questore Contrada, come gli Andreotti, i Gava, i Pomi¬ cino, i Misasi e l'intera classe politica del Mezzogiorno, accusata di collusione con le cosche. A sentire loro, Buscetta, Mutolo, Marchese, Mannoia, a sentire Cancemi e Scavuzzo, gli ultimi due collaboratori aggiuntisi agli altri, non ci sono dubbi: Bruno Contrada è stato un uomo di Cosa nostra, un funzionario dello Stato che ha favorito latitanze, vanificato operazioni di polizia e tramato coi mafiosi. Contrada uomo di «don» Saro Riccobono, amico di Michele Greco, in buoni rapporti con Bontate, informatore di Riina. Contrada gran tramatore, fino a voler rimanere a Palermo, anche dopo l'assassinio del suo amico Boris Giuliano (1979) per poter meglio tessere la tela delle sue complicità. Tutto provato, anche le dichiarazioni dei collaboranti, assicurano i magistrati. Ma lui, il dottore Contrada, respinge sdegnosamente ogni accusa. Nega tutto e produce migliaia di fogli di carta che elencano, da¬ ta dopo data, tutto ciò che il poliziotto ha «prodotto» negli anni: arresti, rapporti giudiziari, appunti riservati, richieste alla magistratura. Il questore respinge anche la tesi nei suoi confronti più benevola, quella che lo dipinge semplicemente «intimidito» dalla sorte toccata a Giuliano. E rilancia affermando che, ai tempi del «quieto vivere», era proprio la «sua» squadra mobile - non c'erano ancora i Falcone e i Borsellino - il solo punto di riferimento dell'antimafia. Ma perché allora tanto accanimento nei suoi confronti? Perché privarlo della libertà per sedici mesi e costringerlo alla vergogna di un processo in manette? La sua difesa la sentiremo in aula, quando sarà il momento. Il chiacchiericcio palermitano, tuttavia, ne anticipa i temi. Sono mezze frasi, qualche piccolo sfogo dei familiari del questore: Contrada vittima di un complotto. Dei giudici? No, non è questo il punto. Contrada ha perso nello scontro tra «cordate» del ministero dell'Interno. E quindi sta pagando il conto. Questo pensano gli innocentisti. Ma, obiettano i colpevolista può un complotto avvalersi di un impianto accusatorio che ammesso sia stato «costruito a tavolino» - presupporrebbe il concorso di decine di testi in malafede, tutti concordi contro un solo uomo? Al di là di come stiano davvero le cose, c'è da fare una riflessione: sul processo grava un peso eccessivo. Se la posta in gioco è la credibilità dei pentiti, se il verdetto dovrà «servire» agli schieramenti politici che si scontrano sul futuro del pentitismo, non ci potrà essere spazio per la singola vicenda umana e professionale di Bruno Contrada. Francesco La Licata La difesa contrattaccherà «E' la vittima di un complotto tra due cordate ministeriali» A fianco Bruno Contrada, sotto il commissario Boris Giuliano (a sinistra) e il pentito Buscetta

Luoghi citati: Contrada, Palermo