Vendetta all'italiana di Giuseppe Mayda

Conso Vendetta all'italiana Anche Togliatti disse: rinuncio assi mm '■■ DEPURAZIONE MANCATA I quell'epurazione contro il fascismo, sancita da uno dei primi governi dell'Italia liberata col decreto legge luogotenenziale del 27 luglio 1944, se ne discusse a lungo ma finì all'italiana, in un nulla di fatto, fra l'approvazione (e la rassegnazione) dei grandi partiti di massa, dal democristiano al socialista, dal comunista all'azionista. Non per nulla un mese dopo quel decreto, il 27 agosto, un «manifesto dei giuristi», pubblicato da 19 docenti, aveva avvertito che «volendo effettivamente realizzare una punizione retroattiva del fascismo era pericoloso farlo sul terreno della legalità: appunto perché era un terreno su cui non avrebbero potuto farsi concessioni di sorta». Il progetto di epurazione era stato enunciato già in uno dei punti della «Dichiarazione sull'Italia» formulata dalla Conferenza interalleata dell'ottobre 1943 e prevedeva che «Tutti gli elementi fascisti o filofascisti fossero rimossi dall'amministrazione statale e dalle istituzioni di carattere pubblico». Con la liberazione di Roma (giugno 1944) l'applicazione delle «Sanzioni contro il fascismo», cioè contro tutti coloro che sotto Mus- solini si erano avvantaggiati nelle carriere e nelle attività economiche facendo valere la loro qualità di iscritti al partito, entrò in una fase più attiva. A luglio del 1944 fu varato il decreto Sforza che prevedeva tre norme: 1 ) punizione dei crimini politici commessi durante il fascismo e l'occupazione tedesca; 2) epurazione dell'amministrazione statale con l'eventuale allontanamento di coloro che avevano sfruttato le proprie posizioni politiche per acquisire vantaggi e promozioni; 3) avocazione dei profitti di regime e punizione dei profittatori. A parere di molti, però, queste sanzioni si prestavano a vendette personali e a speculazioni di ogni genere benché si riconoscesse che alla base dell'epurazione esistevano esigenze di carattere morale e politico: «Se si vuole costruire una società italiana nuova - scriveva "L'Azione del popolo" - è necessario eliminare la vecchia classe dirigente che ha mandato Mussolini al potere e ve lo ha sostenuto». Le difficoltà stavano nell'accertare i fatti e nell'adottare criteri uniformi di giudizio per valutare situazioni che, in numerosi casi, erano particolarissime anche perché appariva troppo vasto il numero di quegli italiani che si erano compromessi col fascismo in anni in cui la soddisfazione dei più elementari diritti era subordinata all'iscrizione al partito. Così il secondo governo Bonomi si divise profondamente nella polemica fra democristiani e liberali - favorevoli entrambi a limitare l'epurazione a coloro che avevano appartenuto alle gerarchie del fascismo, agli speculatori e agli arricchiti di regime - e il partito comunista, il partito socialista e il partito d'azione che si battevano per una applicazione integrale della legge intendendo colpire vasti settori dell'amministrazione sta¬ tale, dell'esercito, dell'economia (in quell'atmosfera la paura si diffuse specie nella borghesia, e uno dei sintomi fu l'inatteso successo del movimento dell'«Uomo qualunque» fondato dal commediografo Guglielmo Giannini, che proclamava nel suo giornale a tutta pagina: «Abbasso i politici, abbasso i discorsi!»). Nell'estate del 1945 il governo dell'azionista Parri, accogliendo le insistenze richieste di socialisti, comunisti e di esponenti del suo stesso partito, riaprì il problema dell'epurazione che Braomi in pratica aveva accantonato ma le Commissioni provinciali e comunali per l'epurazione si trovarono a giudicare in base a disposizioni ambigue che potevano facil¬ mente prestarsi ad applicazioni di esagerato rigore oppure di eccessiva tolleranza: fra il 15 agosto e il 31 dicembre del 1944 su 3588 casi sottoposti all'Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo, 597 vennero risolte con dispense dal servizio, 1461 con sanzioni minori e 1530 con proscioglimento; del resto, secondo dati del 1960, su 64 prefetti di prima classe in servizio, 62 erano stati funzionari del ministero degli Interni durante il fascismo e su 241 viceprefetti, tutti indistintamente avevano fatto parte dell'amministrazione dello Stato nel ventemiio mussoliniano. Il primo punto del decreto sulla punizione dei delitti fascisti (la pena di morte era prevista per chi, dopo l'8 settembre 1943, avesse commesso «crimini contro la fedeltà e la difesa del Paese») fu largamente disatteso e quelli del maresciallo Graziani e di Borghese, sono - per dirla con le parole del senatore Vassalli - «due casi illuminanti». Lo stesso Togliatti, ministro di Grazia e Giustizia, capì che l'epurazione non era possibile anche perché si rese conto che essere ministro del Re e collega di Badoglio e poi chiedere la punizione dei capi del fascismo era una contraddizione insanabile. A conti fatti nessuna delle norme previste ebbe effettiva applicazione: le condanne furono annullate in gran numero dalla Cassazione, i delitti delle squadre d'azione non vennero puniti, i patrimoni non furono confiscati, l'epurazione della burocrazia fallì. E contro i capi fascisti si emisero sentenze mitissime. Giuseppe Mayda Annunciata nel '44, si risolse con sanzioni e miti condanne Il maresciallo Pietro Badoglio Palmiro Togliatti ministro della Giustizia nel dopoguerra

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