Noi i meccano-dipendenti di Luciano Gallino

| La tecnica ci minaccia, ma il rischio supremo è un altro | La tecnica ci minaccia, ma il rischio supremo è un altro Noi, i meccano-dipendenti E se i computer si fermassero? «tIELLE settimane scorse alV cuni incidenti hanno rilann ciato la discussione sui ri- I schi che la diffusione sem- II pre più estesa di sistemi tecnologici - in parole povere di macchine - comporta per le popolazioni e per l'ambiente. V'è stato in Italia lo scoppio del pozzo petrolifero a Trecate, poi l'incendio dell'oleodotto nei pressi di Ivrea; in Turchia, sul Bosforo, la collisione di due navi da carico con relativo megaincendio. Non sono stati incidenti apocalittici, sebbene quello turco abbia fatto parecchie vittime, ma sufficienti a ricordare che il rischio tecnologico, l'insieme dei rischi derivanti dalla presenza e dall'uso quotidiano di macchine da parte di milioni di individui non ci abbandona mai. E' un rischio che ha già partorito disastri, umani e ambientali, assai peggiori di quelli ricordati prima, e altri ne partorirà, forse più gravi di quelli che abbiamo mai visto finora. Con tale rischio sembra si debba ormai convivere, assumendolo come una sfida incessante a concepire e realizzare metodi che permettano di ridurlo entro limiti tollerabili. Tuttavia, se per una volta volessimo davvero indulgere all'immaginario catastrofico, e chiederci quale potrebbe essere oggi il disastro super, il padre di tutti i disastri, dovremmo onestamente rispondere che esso consisterebbe nell'arresto di gran parte delle macchine esistenti in un Paese sviluppato; nemmeno di tutte, ma di una percentuale critica di esse. Potrebbe trattarsi di un virus, per dire, sul tipo di quelli che infestano con esiti letali la memoria dei computer, però magari radiotrasmesso, al fine di assicurarne la diffusione a pioggia. Ipotesi meno fantascientifica di quanto non paia, giacché il funzionamento di innumeri tipi di macchine dipende al presente da uno o più microprocessori, sensibili per loro natura a interferenze radio, oltre che - secondo i tipi - via software. Già il blocco d'un elevato numero di computer sarebbe un disastro, poiché sono essi che controllano produzione di energia e distribuzione dell'acqua, processi produttivi e telecomunicazioni, traffi¬ co aereo e scambi ferroviari. Ma dai microprocessori dipende ormai anche il funzionamento di motori d'auto e lavatrici, telefonini e ascensori, macchine utensili e celle frigorifere, e innumerevoli altri tipi di macchine. Quanto basta per prevedere che il blocco di una quota critica di queste, in forza di qualche incidente a carattere epidemico, come quelli causati appunto dai virus elettronici, produrrebbe disastri tali da far forse rimpiangere nel giro di pochi giorni il peggiore dei disastri socio-ambientali causati in passato dalla tecnologia. L'immaginario catastrofico, si dirà, serve in genere soltanto a procurare notti insonni, senza al¬ cun beneficio reale. Ma non in questo caso. La prospettiva di un mondo sconvolto dal blocco delle macchine può infatti servire a ricordarci efficacemente quanto sia divenuta ormai smisurata la nostra dipendenza da esse. E' una lunga storia, sospinta dal progetto monomaniaco di costruire macchine sempre più possenti per dominare la natura; un'idea, questa, proveniente almeno per l'Occidente diritta dalla Bibbia {Genesi 1, 28). Dopo tante opere sulla tecnologia di matrice anglosassone, una sintesi di essa, dagli egizi e dai greci ai giorni nostri, la traccia con efficaci pennellate, dense quanto asciutte, Vittorio Marchis del Politecnico di Torino, nella sua Storia delle mac¬ chine. Tre millenni di cultura tecnologica (Laterza). In essa si incontrano e si intrecciano a ben vedere i mille fattori della nostra meccanodipendenza; che non è l'intento primario di Marchis ricostruire, ma che può essere un buon percorso di lettura, considerati i tempi, di questa come di altre storie della tecnologia. Le macchine sono potenza, innanzitutto militare. Ecco trasparire allora, sullo sfondo della vicenda al tempo stesso politica economica e culturale delle macchine, imperatori e principi, governi e generali i quali chiedono a inventori e industriali macchine da guerra sempre più micidiali, dalle baliste dei romani ai primi cannoni a retrocari¬ ca dell'800, dai carri armati della prima guerra mondiale agli aerei a reazione della seconda (un fatto da tenere a mente, quando apprezziamo il fatto di andare comodamente in un paio d'ore da Roma a Londra, poiché nulla più della guerra ha fatto progredire le macchine volanti). Sempre le macchine permettono traffici a raggio più ampio e viaggi più precisi e sicuri per nave e per ferrovia. Una buona ragione per armatori e mercanti, compagnie di assicurazione e spedizionieri, sin dal XVI secolo, per finanziare la costruzione di navi più grandi e veloci, di grandi motori marini, di locomotive ferroviarie, insieme con una miriade di macchine di complemento come barometri, cannocchiali, goniometri, ma soprattutto orologi. Sono ancora le macchine a consentire di produrre grandi quantità di beni di qualità a costi di continuo decrescenti, allargando in tal modo enormemente i mercati: di qui la formidabile spinta che dalla fine del 700 proviene dall'industria affinché la tecnologia produca macchine utensili vieppiù efficienti, motori più potenti ma più leggeri, telai automatici, presse giganti da decine di tonnellate e insieme torni capaci di lavorare viti da un decimo di millimetro; nonché, ben presto, macchine per costruire altre macchine. Con un processo da aggiungere al quadro, più evidente che mai nelle tecnologie moderne e contemporanee. Infatti tutte queste specie di macchine, diversamente da quelle animali che sono condannate ciascuna alla propria diversità, si interfecondano, producono ibridi impensabili, si coniugano da giovani come da vecchie, figliando nuovi organismi e sistemi originali. Come avvenne sul finire del secolo precedente con l'auto, nata dal connubio della tecnica delle carrozze, dei motori industriali e della raffinazione del petrolio, e, sul finire di questo, con le Ntic, le nuovissime tecnologie della informazione e della comunicazione discese da macchine e tecnologie placidamente mature come il telefono, la televisione e il computer (alle quali la Storia di Marchis, nel suo impegnativo sforzo di sintesi, dedica purtroppo solo poche righe). A questa trimillenaria vicenda di macchine nate per passione e per interesse, per brama di potere e piacere delle comodità dobbiamo l'attuale meccanodipendenza. Ci si può preoccupare per il fatto di avere creato in tal modo un potere che è ormai del tutto fuori del nostro controllo. Oppure riflettere sul fatto che grazie a esso si vive in media, nei Paesi che più si lamentano di soffrirne, circa due volte di più che non un secolo fa. Ma essa è destinata a restare quando non a crescere; e con essa, in una con i rischi tecnologici, e anzi in modo sempre più strettamente intrecciato con la valutazione ed i mezzi per la riduzione di questi, dovremo fare in permanenza i conti. Luciano Gallino Un libro ripercorre 3 mila anni di macchine La ricerca della potenza, fra incidenti possibili e catastrofe incombente | A lato un macchinario dell'800. sopra un'immagine del disastro ambientale causato dallo scoppio del pozzo petrolifero a Trecate

Persone citate: Marchis, Vittorio Marchis

Luoghi citati: Italia, Ivrea, Londra, Roma, Torino, Trecate, Turchia