«Così voglio governare l'Italia»

«Così voglio governare l'Italia» Una giornata all'ombra del Resegone, aspettando la 2a Repubblica «Così voglio governare l'Italia» Berlusconi: ho vinto contro giornali e industriali NELLA VILLA DI ARCORE CARCORE HI l'avrebbe mai detto che in un giorno di aprile del 1994, un giornalista alla ricerca del cuore della politica italiana non sarebbe andato a elemosinare interviste tra il tufo, il barocco e le polveri papali di Roma, ma avrebbe dovuto prendere i sentieri manzoniani di «Renzo e Lucia», incamminarsi tra fabbrichette di acciai, camerette per sposi e arredobagni in Brianza per arrivare fino ai cancelli di una villa immensa, dove più si sente il vento delle Prealpi che ha spazzato via la Prima Repubblica? Chi avrebbe potuto immaginare che nell'Italia dove nulla cambia, il nuovo generale vittorioso in attesa di scendere a Roma sarebbe stato all'ombra del Resegone, sulle rive del Lambro? E invece è proprio qui, in località Arcore, che riposa e prepara la sua calata su Roma «el sciur Silvio», come dice rispettosamente il passante che mi indica la strada per villa San Martino, il cinquanteseienne Silvio Berlusconi. «Riposo per modo di dire, sa sorride sulla soglia della villa il sciur Silvio in giubbotto imbottito di panno blu marin ho dormito tre ore e mezzo per notte, faccio una vita da pazzi, ma non me l'ha ordinata nessuno». In effetti il suo è un sorriso un po' fané, velato come se davanti al viso portasse ormai in permanenza quel celebre filtro soft della sua prima videocassetta elettorale. «E' una vita frenetica». Qualche sospetto di follia si affaccia effettivamente nel visitatore, quando lo sguardo corre, spazia, nello splendore della villa e dello sconfinato parco privato, quando si posa su tele d'autore e su due campi privati di calcio coperti di un'erba che San Siro neanche sogna, sulla opulenza di questa «Dallas» in Brianza che porta alle labbra una domanda irresistibile: ma chi glielo ha fatto fare, dottor Berlusconi? Ma quale demone l'ha spinta a lasciare la sua «Dallas on the Lambro» e andarsi a buttare nella mischia con Bossi, Fini, Occhetto e Segni? «L'amore per il mio Paese. Ho capito di dovermi decidere già l'estate scorsa, quando è passata la nuova legge elettorale maggioritaria che consegnava l'Italia alle sinistre, quelle sinistre che si fingono liberali ma che portano dentro il nocciolo inestirpabile del dirigismo e dello statalismo. Il Centro era a pezzi, la Destra era sbrindellata, ho cercato invano di convincerli a fare un accordo, a formare una squadra. Ho raccolto le loro forze, in tre mesi ho creato un Partito dal nulla, ho messo insieme 400 candidati, ho organizzato la campagna elettorale e mio sono detto: la mia vita di imprenditore, di industriale è finita. Una fase della mia esistenza si è chiusa e ne comincia un'altra, quella della politica. Sono pronto anche a vendere le mie aziende, se trovassi acquirenti in questo mercato difficile, purché il lavoro e la fedeltà di chi mi ha seguito venissero premiate». Vendere tutto; vendere davvero? «Sono pronto ad andare oltre anche alle norme americane. La mia vita di imprenditore si sta concludendo. Sono nella politica. Ho superato il primo ostacolo, c'è ancora molto da fare. Voglio convincere anche quelli che mi davano del matto». Liberate dalle catene di stabilimenti, condomini, finte villette fra il verde e svincoli stradali, dalla villa di Berlusconi le Alpi sembrano vicinissime e il polverone della politica lontanissimo. Ma è solo un miraggio, perché i morsi di Bossi che lui chiama («ma non lo scriva», ma sì che lo scrivo, abbia pazienza, è troppo bella) «pericoloso e imprevedibile come un cinghiale ferito» sono forti. E l'ombra di quei saluti fascisti esibiti da giovani dopo la vittoria, incombe. «Lo so, soprattutto all'estero certi gesti e gli elogi di Fini al Mussolini statista hanno fatto una cattiva impressione e mi rendo conto che resta molto lavoro da fare. Ma un generale deve fare la guerra con le forze che ha e poi io, su Fini, non ho dubbi. La sue scelte liberali sono chiare e sono state fatte, il suo cammino verso il liberismo e la libertà è stato un cammino vero. E ci sono io a garantirlo, io che sono l'equilibrio, la moderazione, la misura in persona. Non c'è nessuna, dico nessuna possibilità, nessuno scampo a questa scelta di equilibrio e di moderazione, deve essere chiaro anche all'estero». Ma non è invece chiaro affatto dove vada a finire la promessa di un governo stabile, forte e subito, ora che i rapporti fra gli alleati di ieri sono diventati quelli fra il cacciatore e il cinghiale ferito. «Bossi farà quello che vuole. Fuori dalla Alleanza con me e con Fini per lui non c'è storia e lo sa bene, certo lo sapeva quando poco tempo fa, a casa del mio amico Fedele Confalonieri abbiamo alzato insieme le coppe dello champagne per brindare al nostro programma di governo. Io parlo chiaro: se avrò l'incarico, formerò il governo. Se non ci sarà una maggioranza, torneremo a votare e conteremo i voti...». I voti di chi, e con chi? «I voti, per esempio, dei cattolici moderati, ora che la Chiesa ha riconosciuto il mio ruolo di Centro». E perché gli altri partiti non dovrebbero tentare di formare una maggioranza diversa? «Ah sì? - e qui la calza della stanchezza si solleva in fretta - un bel governo Bossi-D'Alema-Martinazzoli-Orlando-Bertinotti? Si accomodino. Una risata li seppellirai Può darsi, ma Silvio Berlusconi non è un uomo che ride, è piuttosto un uomo che sorride, di quel suo sorriso ormai famoso, votato, telegenico («non cominciamo con la storia delle tv in campagna elettorale che io ho avuto appena il 6% di presenza-voce sui teleschermi in marzo, meno di Bossi, altro che storie») un sorriso che forse un tempo era quello del venditore, ma che oggi è ormai divenuto il suo. Sembra ovvio ormai che il Venditore e la Persona Vera si siano fusi, quasi che Berlusconi avesse finalmente convinto se stesso di essere quello che dice di essere. E Berlusconi non è personaggio che si vergogni del suo successo, «che mi sono meritato; faticato, come Baresi che si è fatto i suoi miliardi giocando da grande difensore; e perché no?». Se non ride, se non riesce a sembrarmi un uomo davvero sereno, in pace, la ragione non sono i soldi, i conti della Fininvest, le beghe con Bossi. Il segreto è in un Campionato che Berlusconi sente di non avere ancora vinto, per quante siano le vittorie parziali: la Supercoppa del rispetto. Quando gli chiedo, a voce un poco più alta per sovrastare il ronzio dei tagliaerba che fuori fanno la manicure ai suoi prati, se si senta ancora trattato da «parvenu», da ultimo arrivato al tavolo dei potenti veri, capisco di avere toccato 11 cuore di un uomo che non deve poterne più degli sfottò, dei luoghi comuni, dei «Mister Tv», «Berlusca», «Uomo di Arcore» o «Sua Emittenza» che gli piovono addosso. E' come se fosse saltato un tappo. «E' tutta la vita che lo so. Quando sono entrato nel calcio, sai le risate. Ho preso una squadra sull'orlo del fallimento e l'ho portata a tre, tocco ferro, quattro scudetti e due Coppe dei Campioni. Quando volevo fare e vendere case diverse, prodotti immobiliari diversi con giardini, sentieri pedonali, gli alberi da 12 metri e piste ciclabili, giù a ridere. Ho preso in mano televisioni di grandi gruppi privati che perdevano miliardi a secchi e tutti ridevano perché credevano di avermi mollato il bidone, di avere infinoc¬ chiato il parvenu. Volevo entrare in politica e tutti a dirmi, anche i miei amici più cari, anche la mia famiglia, ma no, ma sei matto, ma vai alla rovina, e la rovina sarebbe stata certamente, anche per il mio gruppo industriale, se avessi perso. Non ho perso. Lascio che ridano». Cinquantasei anni di rincorsa verso il riconoscimento, verso la liberazione da quell'incubo: il parvenu. Su una mensola; sotto uno stupendo quadretto settecentesco, vedo un souvenir che mi ricorda il primo dollaro che i miliardari americani mettevano in cornice, ma non è danaro. E' un piccolo ritaglio ingiallito di giornale chiuso nel plexiglas, un titolino a due colonne del 1961 che annuncia la consegna del Premio Pubblicitario «Giannino Manzoni» di lire 500 mila a Berlusconi Silvio. Il primo ritaglio di rispetto pubblico. «Li ho avuti sempre tutti contro, anche in questa campagna elettorale. I giornali mi orano contro, Scalfari, la Repubblica e L'Espresso perché sono di un altro partito, Mieli al Corriere e Mauro alla Stampa per le loro convinzioni e quelle dei loro redattori. Montanelli ha lasciato II Giornale senza che io gli dicessi mai nulla, solo una frase a colazione su Segni, che mi pareva uno destinato a perdere. Se ne è andato perché uno innamorato della sua immagine come lui non poteva sopportare la coabitazione con uno che lo stava superando proprio nell'immagine. E questo vale anche per Bossi. I grandi industriali non hanno mosso un dito per aiutarmi. Ho corso da solo». Camminiamo insieme tra i viali di ghiaia del parco, accanto alle immense sculture di Cascella, fino alla tomba di famiglia, scavata nel sottosuolo, per ospitare gli amici, se stesso ma soprattutto il padre, scomparso 4 anni or sono. «Anche per questa tomba, qualche giornalista mi ha preso in giro; ma sa perché l'ho costruita? Perché mio padre, prima di morire, mi disse: Silvio, mettimi qui nel tuo parco, così quando vai a correre alla mattina ti fermi un momento e mi dici "Ciao, papà". Adesso andiamo via», e mi spinge fuori, verso i campetti verdi di calcio dove qualcuno ha sistemato il pallone sul dischetto del rigore, pronto per essere tirato in rete a colpo sicuro. «Lei non ha freddo?», s'informa premuroso. No, ho una domanda: con tanta rabbia in corpo, dottor Berlusconi; ha voglia di vendette? Contro la Rai, contro i giornali, contro tutti? «Ma cosa dice? Ma io sono incapace di vendette, sono incapace anche di prendermela contro coloro che dentro le mie aziende mi fanno lo sgambetto, mi tradiscono in casa, nessuna vendetta, mai, contro nessuno. Io vorrei prendermi delle responsabilità di governo per dare una mano al mio Paese, non per castigare qualcuno. E' ridicola questa immagine del Berlusconi-Nerone». Quante promesse, quante speranze facili volano contro il cielo azzurro pallido della Brianza, e come è agevole parlare. «Io non ho mai parlato a vuoto in vita mia, e appunto la mia vita lo dimostra. Nei primi cento giorni di governo, se ne avrò la responsabilità occorrerà dare una mano a chi rischia, a chi investe, a chi crea lavoro. Bisogna fare presto a rimettere in moto l'economia, prestissimo, bisogna premiare; non punire a colpi di tassazione come vogliono fare le sinistre dirigiste. E quando avremo contenuto la spesa pubblica, potremo anche pensare a tasse più giuste per chi può di meno». Cento giorni all'americana, alla Reagan, alla Thatcher, ecco che spuntano i modelli... «Non modelli, personaggi che ammiro, non quel Ross Perot al quale mi hanno paragonato alcuni, sbagliando. Ma non sono John Wayne in politica. Vorrei certo avere i successi della Thatcher, ma senza far pagare alla nazione i costi sociali di quei successi». Ecco, allora, l'antico Italian Dream: fare la frittata senza rompere le uova. Ma non i sogni, bensì la politica dei redditi hanno retto finora la nostra pace sociale. «Vuol chiedermi se io la farò finita, come presidente del Consiglio, con la politica dei redditi, con le intese tra Confindustria, governo e sindacati? Martino, il mio principale consigliere economico, è un liberista della scuola di Friedman, crede nel principio della concorrenza, ma non predica la guerra di tutti contro tutti. Le intese sono necessarie. Il problema è di non trasformarle in una camicia di forza che imprigiona 10 sviluppo, il mercato e quella stessa occupazione, soprattutto giovanile, che si vogliono difendere. Ripeto, le intese coi sindacati sono necessarie, purché non si trasformino in una barriera contro chi è disoccupato o cerca 11 primo lavoro». Sembra tutto così facile, così logico quando si passeggia nel suo parco al fianco di un uomo persuasivo come Berlusconi e la voglia di «comprare» è fortissima. E per la stessa ragione è facilissimo non credere, come non si crede davvero alla promessa del Carosello che giura di rinforzarti la chioma con la lozione. Il 28 marzo, l'Italia spelacchiata dalla Prima Repubblica ha comprato la lozione Berlusconi. Ora vedremo se i capelli le si rinforzeranno. Vittorio Zucconi «Bossi è pericoloso e imprevedibile come un cinghiale ferito» «Sa bene che fuori dalla alleanza con me e con Fini per lui non c'è storia» «Se la Lega non ci sta torneremo alle urne e conteremo i voti. Punteremo sui cattolici moderati ora che la Chiesa ha riconosciuto il mio ruolo di Centro» «Sono pronto a vendere le mie aziende Sono pronto ad andare anche oltre le norme americane» «Un generale deve fare la guerra con le forze che ha» «Fini? Non ho dubbi Le sue scelte liberali sono chiare; ci sono io a garantirlo» oloso e imprevedibile me un cinghiale ferito» a bene che fuori dalla nza con me e con Fini per lui non c'è storia» «Se la Lega non ci sta toalle urne e conteremo Punteremo sui cattolicora che la Chiesa ha ricil mio ruolo di Centro»i al anmndo to lavoro rale deve forze che , non ho e liberali ate fatte, o il liberistato un sono io a no l'equine, la min c'è nes possibi a questa di modee chiaro hiaro af finire la erno staora che i ati di ieri lli fra il iale feri che vuoanza con i non c'è rto lo sampo fa, a o Fedele mo alzato lo chamal nostro erno. Io l'incario. 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Quando sono entrato nel calcio sai le risate Ho preso chivo tutmieche la mma sei mvina, e lata certammio grupavessi peLascio chCinquacorsa verto, versoquell'incuuna menpendo qusco, vedoricorda ilmiliardarvano in cnaro. E' ugiallito dplexiglascolonne dcia la coPubblicitManzoni»Berluscontaglio di«Li ho avutro, anchgna elettorano conpubblica sono di unal CorrieStampa pni e quelMontaneGiornale cessi maia colaziopareva unre. Se ne innamoragine comportare luno che proprio questo vagrandi inmosso unHo corso La villa di Arcore In basso Silvio Berlusconi tra il coordinatore di Alleanza nazionale Gianfranco Fini e il leader della Lega Nord Umberto Bossi