Giochi di stile nell'apocalisse di Burniti

Giochi di stile nell'apocalisse di Burniti A Palermo, per la prima volta riuniti, i tre deliziosi atti unici scritti per la musica di Chailly Giochi di stile nell'apocalisse di Burniti Regia di Crivelli e ottimo cast musicale diretto da Karl Martin PALERMO. Non è più una novità il fatto che bisogna scendere sino a Palermo, per essere gratificati da qualche autentica riscoperta musicale, oggi che sono quasi scomparse del tutto dai teatri italiani. Che bell'idea rimettere in scena (per la prima volta insieme) il trittico di atti unici che Dino Buzzati scrisse (e narrò in scenografia) per Luciano Chailly. Sino al 10 aprile, al Teatro Politeama, si possono riascoltare questi piccoli gioielli di efficacia teatrale. Sagacissimo come sempre il regista Filippo Crivelli: con nulla, davvero, una buca del suggeritore che può diventare ara sacrificale, e tutti che vi si avvicinano, con ritmi da operetta, come al fuoco della tragedia, gli allineati protagonisti di «Procedimento Penale» (1959). Un «cocktail-party» dove il salotto Verdurin da Via Durini sembra trasformarsi in un'Agatha Christie. Una fatua soirée tipicamente milanese (Buzzati si terrorizzò, alla prima del Lirico, quan¬ do si vide in platea quelle stesse Wally Toscanini, quelle Bicky, la stessa zarina Crespi, che lo avevano ispirato) millefoglie di pettegolezzi da aggiornato sciocchezzaio flaubertiano che improvvisamente si volge in processo: un'invitata è indagata d'omicidio (c'è di mezzo anche il «Pasticciaccio?»). Un sabba, mentre l'inspessisce la drammaturgia della partitura, dopo quella morbida battaglia tra musica e parola, il sax che commenta il cosmico problema della padrona di casa («meglio con il latte o il limone?»), lo svenevole violino che fa il verso al baciamano dell'eterno gagà cechoviano. Poi tutto torna nelle righe, come una burrasca che si placa, ahimè. «Quell'alibi maledetto!», che ogni volta toglie il sugo sanguinoso alle storie. Così è il mondo anche figurativo di Buzzati: come uno stroboscopio che trova la propria messa a fuoco. Ma quella doppiezza rimane, nel cuore di chi guarda. Anche nel «Mantello» (1960) la vera ferita è nascosta. Se con il primo atto tinico Buzzati sembrava porsi dalle parti del teatro dell'assurdo, qui siamo dalle parti di «Spoon River». Torna il reduce che sembrava disperso, piange felice la madre, ma lui non vuol togliersi il mantello. Un sinistro emblema visivo, in quella baita sghemba, sotto quelle montagne tarlate che sembrano sanguinare cascate di pietra. La musica di Chailly si fa più livida, le Onde Martenot ed il vibrafono parlano il linguaggio incomprensibile del morto vivente. L'ansia prende anche noi, di togliere finalmente quel mantello. «Era proibito» (1964), che fu un insuccesso bruciante, mette in scena sirene e macchine da scrivere, come avrebbe voluto Cocteau per «Parade» (convincente la musica, meno la tenuta drammaturgica). E ricorda piuttosto «Fahrenheit 451» di Truffaut-Bradbury. Un mondo aziendale ossessivo (il «Corriere»?), commissariato so¬ vietico alla Mejerch'old-Majakovskij, doppia struttura sovrapposta, come poi avrebbero emulato Svoboda e Ljubimov: scrivanie inchiodate sotto la doccia sinistra d'una sintetica luce d'inquisizione. Un universo concentrazionale dove la poesia è bandita, proibiti la musica ed i sospiri, l'incantesimo della natura. Ma ad un tratto sorge la luna, gigantesca e liberatoria: sembra esplodere la rivoluzione, tutti in rivolta. In realtà quella carducciana padella butterata non annuncia che un altro futuro apocalittico. Ogni verità ha il suo rovescio. Non c'è redenzione nel mondo di Buzzati, che trasferisce sulle scene il suo gusto finto-naif, da ex voto del '900, di raccontatore di storie con il colore. Ottima la tenuta musicale, la prova brillante del direttore Karl Martin, ideale il cast con la Mazzuccato, Elena Zilio, Alfonso Antoniozzi e Stefano Antonucci. Marco Val!ora

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