L'accademia della fame per i grandi del teatro

Attori e cibo, in un libro la storia di un amore contrastato Attori e cibo, in un libro la storia di un amore contrastato L'accademia della fame per i grandi del teatro /^àlE' una compagna di lavoro 1 'j che gli attori di tutto il 1 mondo hanno avuto dall'i1 i nizio della loro carriera: la SA—I fame. Se la sono trascinata nei vagabondaggi, se la sono tramandata, uguale, di padre in figlio: la stessa che vedevano nella maschera - Pulcinella o Arlecchino - impersonata da tanti di loro sulla scena. Nella vita di ogni comico, fino a tempi assai recenti, ci sono anni di pasti saltati, di cene con il cappuccino, di corteggiamenti a ostesse, locandiere, albergatrici, per raggiungere - con il pretesto della camera da letto - il più remunerativo tavolo della cucina. Macario rievoca, in una clandestina autobiografia, i suoi anni di formazione a «Guittalemme», con lo spettrale esordio in un paesino della Bassa Padana. «Compagnia primaria, per il fatto che mangia chi arriva primo a tavola», gli disse al suo arrivo il capocomico che lo aveva scritturato. E, per rassicurarlo: «Qui, patate, fagioli e cipolle tutte le sere». Sergio Fantoni, figlio di attori, ci raccontava che il suo primo ricordo d'infanzia era il fornello a spirito, trovato frugando fra le valigie della pensioncina, dove i genitori lo lasciavano per andare a teatro. Era un oggetto proibito, in quell'ambiente, ma necessario alla sopravvivenza. Aldo Fabrizi, diventato attore famoso e da sempre grande cuciniere, lasciò interdetto il suo commensale Gianrico Tedeschi, bevendo acqua. Come era possibile che fosse astemio, un gastronomo come lui? «Sono cresciuto nella povertà, e la mia famiglia il vino non poteva proprio permetterselo», fu la risposta. Tino Buazzelli, il più straordinario mangiatore del teatro italiano, aveva sofferto la fame per tutta la gioventù. La voracità di Buazzelli era incredibile. Calindri lo vide un giorno al ristorante ordinare un pollo arrosto e mangiarselo intero. Era il solo attore al mondo che, per impersonare Falstaff, dovesse cercare di stringere un po' la cintura. Quella avidità era una sorta di rivalsa, quasi di vendetta. I suoi compagni all'Accademia di arte drammatica ricor- dano che arrivava da Frascati - incredibilmente magro - con un grande sfilatino, ripieno di frittata. Durante l'intervallo lo vedevano affondare i denti nel suo povero pranzo; il panino finiva presto, la fame no. Sul rapporto problematico, spesso doloroso, fra l'attore e il cibo ha condotto una lunga indagine Bruno Dammi, giornalista e uomo di teatro, interpellando sessanta personaggi. Certo, oggi i tempi sono diversi, come egli stesso dichiara, nell'introduzione al libro che ne ha tratto, Le tavole del palcoscenico (edizione Fuori Thema, Bologna). Secondo alcuni interlocutori, come Omero Antonutti, «il connubio teatro-fame oggi sembra anacronistico». E per Leila Costa, beata lei, «non sono più tempi, i nostri, in cui si possa fare la fame con questo mestiere». «Piuttosto aggiunge Adriana Asti - siamo arrivati al paradosso di pagare i medici per farla, perché tutti mangiamo troppo». Ma non è mica così vero. La maggior parte degli interpellati porta testimonianze del tutto contrarie. «La fame l'ho conosciuta bene», confessa Mariangela Melato, che ripensa, con qualche orrore, agli alberghi con le camere piene di scarafaggi. Arturo Brachetti non poteva permettersi nemmeno quelle. La sua prima scrittura fu a Parigi, nel '79, ottanta franchi al giorno. «Il locale era un dìnerthéàtre e compreso nella paga c'era anche il diritto di mangiare in cucina con i cuochi marocchini e algerini. Quel pranzo mi sfamava per tutta la giornata». Leo De Berardinis, che all'inizio degli Anni 60 faceva teatro d'avanguardia a Roma, non aveva neanche i soldi per prendere il tram: «Con Quartucci mangiavamo sempre carne Simmenthal». Federico Tiezzi, con la compagnia del Carrozzone, era senza soldi anche negli Anni 70. «Rimediavamo con l'aiuto di alcuni amici che lavoravano ai mercati generali e ogni giorno ci regalava- no cose da mangiare, soprattutto frutta e verdura. Ricordo come un incubo di avere mangiato per venti giorni quasi solo pompelmi». Gli attori delle altre generazioni hanno esempi di fame più classica, quasi aristocratica; ma non diversa, nella sostanza. Calindri, ai suoi inizi, si presentava alle prove con un bellissimo paletot nuovo; un bellissimo cappello, e due michette di pane nelle tasche: il suo pranzo. Per la cena Io salvò, in una delle prime stagioni, un testo di Pirandello. Si recitava, con la compagnia Tofano-Maltagliati, Ma non è una cosa seria, che prevede un pranzo in scena, e Tofano «pretese che ci fossero portate vere, fra cui una minestra di verdure e del pollo». Ave Ninchi, all'Accademia di arte drammatica, aveva una borsa di studio di 731 lire, e ne doveva mandare metà a casa, per aiutare la famiglia. «A mezzogiorno non mangiavo, oppure prendevo un panino o due supplì, che mi costavano 25 centesimi l'uno». Neanche diventata attrice, poteva permettersi molto di più. Ricorda una passeggiata, in tre della compagnia, eleganti, come pretendeva la capocomica, Maria Melato, e una lira e 50 fra tutti. Fecero pranzo con tre fette di castagnaccio trovate da un ambulante, e una bevuta alla fontana. «Fummo sazi fino a sera». Nino Manfredi confessa di avere avuto fame dalla nascita: e la vita dell'attore, per molti anni, non gliel'ha tolta. «Pigliavo talmente poco che un pasto al giorno lo dovevo saltare per forza». Fece la prima tournée con Buazzelli, che spendeva tutto al ristorante e lo incaricò di custodire anche i suoi soldi. «Qualche volta siamo anche riusciti a corrompere i custodi dei teatri perché ci lasciassero dormire in camerino, così da risparmiare i soldi della pensione». Più affamato di tutti Ferruccio Soleri, che in attesa di fare l'Arlecchino sulla scena con Strehler lo faceva nella vita. «Tiravo la cinghia in una piccola pensione dove mi facevano credito perché non avevo più una lira e non volevo tornare sconfitto a casa». Ma poi, è veramente così disperante, per chi crede nel teatro, fare un po' di fame? La maggior parte degli interpellati ricorda le privazioni subite, non si lamenta. «Dal 1984 al 1986 passai tre anni nei quali ho patito la mia giusta fame d'attore», dice Alessandro Benvenuti. «La fame, essendo uno stimolo a mangiare, ti spinge a migliorare sempre», afferma Gino Bramieri, che nei primi anni, per arrotondare la paga, vendeva cravatte e attaccava le paillettes ai costumi delle ballerine. «Un po' di fame l'ho fatta e devo dire che mi è servita», riassume per tutti Eros Pagni. «La fame in teatro è pura poesia, è modestia, è pensiero, ed è anche silenzio». Lui la consiglierebbe a tutti «anche se non per lunghi periodi». La ritiene una premessa quasi indispensabile, per affrontare la carriera. Forse per questo tanti attori passano il resto della loro vita a cercare di rifarsi contro quell'antica fame. Vogliono i migliori ristoranti, si improvvisano cuochi, inventano le spaghettate di mezzanotte. La «proverbiale golosità dell'attore - ammonisce Araldo Tieri -, almeno una volta, non era propriamente golosità. Allora, quando vedevano gli attori mangiare molto era perché non mangiavano da tre giorni». Come Arlecchino, come Pulcinella. Giorgio Calcagno Calindri: per pranzo solo due michette Ave Ninchi: dovevo saltare un pasto Cipolle per Macario Bramieri: non avere HHI i soldi per mangiare §^ costringe a migliorarsi gieta' e CHHI §^ "ito Da sinistra: Ave Ninchi, Bramieri e Macario, ; «grandi affamati»

Luoghi citati: Bologna, Frascati, Parigi, Roma